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lunedì 26 luglio 2010

    


Carte false

  Loris Campetti

L'escalation di Sergio Marchionne fa registrare un nuovo salto in avanti nel processo di rivallettizzazione della Fiat. Dalla filosofia classica, «licenziarne uno per educarne cento» - e ormai dovrebbero essere diverse centinaia le tute blu rieducate, dato il numero crescente di licenziamenti realizzati dal Lingotto - l'amministratore delegato starebbe meditando di passare a scelte ancor più radicali. Visibilmente scosso dall'esito del referendum di Pomigliano e indispettito dal moltiplicarsi degli scioperi nelle sue officine, Marchionne potrebbe decidere di chiudere la fabbrica campana per poi riaprirla sotto falso nome, una newco a cui vendere baracca - lo stabilimento - e presunti burattini - i dipendenti. Tutto al solo scopo di liquidare definitivamente il «male» che starebbe corrodendo dall'interno il corpo altrimenti sano della stimata ditta torinese (torinese è un modo di dire). Il male è il conflitto in difesa dei diritti e della dignità dei lavoratori. La newco, il cui nome sarebbe già stato scelto, riassumerebbe tutti i 5 mila lavoratori della «vecchia» azienda a condizione che si adeguino a una nuova legislazione: 18 turni settimanali, riduzione e addirittura cancellazione della pausa mensa qualora la domanda bussasse compulsivamente alla porta, aumento della cadenza delle linee e dunque della produzione pro capite, messa in mora del diritto di sciopero e penalizzazione salariale della malattia, cancellazione del contratto nazionale. Chi ci sta ci sta, gli altri vadano a protestare alla Fiom. Tutti i sindacati sarebbero ammessi al gran ballo, naturalmente, ma per essere riconosciuti dal monarca dovranno prima aderire al nuovo sistema di regole, altrimenti nessuna trattenuta sindacale in busta paga per gli iscritti all'organizzazione reproba e nessuna «concessione» di permessi sindacali aggiuntivi. Un percorso destinato, nella fulgida mente del Lingotto, a togliere alla Fiom anche l'aria che respira. Per realizzare questo progetto rivoluzionario, Marchionne, anzi il prestanome di turno della newco, non iscriverebbe la società alla Confindustria, nel caso specifico quella di Napoli, così da poter eludere il contratto nazionale dei metalmeccanici e costruirne uno ad hoc che i sindacati «collaborativi» sarebbero già pronti a sottoscrivere, così come hanno già fatto con il diktat-referendum di Pomigliano. Si tratterebbe solo di tener buono il grande sponsor dell'ad del Lingotto, Emma Marcegaglia, che verrebbe privata di uno dei pezzi da novanta della sua organizzazione. Tantopiù che, qualora l'operazione newco dovesse realmente realizzarsi e magari anche funzionare, essa non si fermerebbe a Pomigliano ma si allargherebbe all'intero comparto auto della Fiat. Lo spin-off deciso dalla Fiat per le quattro ruote renderebbe quasi «naturale» questo esito.
C'è un altro piccolo problemino sul tavolo di Marchionne, ora allo studio di un'equipe di prestigiosi legali. Si tratta del modo attraverso cui arrivare alla nuova società, la newco. La forma classica è quella della cessione del ramo d'impresa, che però è vincolata al rispetto dell'articolo 47 del Codice civile, dove vengono garantite «le norme in essere». In parole povere, i lavoratori riassunti dalla newco resterebbero titolari del sistema di regole, garanzie e diritti acquisiti nella loro precedente vita lavorativa in Fiat. Insomma, tanta fatica per niente? La Fiat e i suoi legali non mancano certo di fantasia e creatività qualcosa potrebbero anche inventarsi per liberarsi di qualsivoglia laccio e lacciuolo. Le cose furono più semplici per Cesare Romiti, quando venne costruito lo stabilimento di Melfi dal nulla, anzi dal «prato vedre» della piana di san Nicola. La società venne chiamata Sata e non Fiat e i lavoratori assunti subirono un trattamento diverso dai loro compagni di Torino o di Termini Imerese: orari più lunghi, salari più bassi, produttività più alta, diritti minori (fu allora che venne derogato il divieto al lavoro notturno femminile). A Romiti l'impresa fu possibile proprio perché a Melfi non esisteva un «prima», e comunque anche il vecchio amministratore delegato del Lingotto pretese un accordo sindacale, che tutti firmarono, prima di avviare la costruzione.
Una bomba atomica gettata sulle relazioni sindacali italiane. Non è detto che sia destinata ad esplodere davvero, se ne parla - e questo giornale ne ha scritto in più occasioni nell'ultimo mese - dall'accordo separato tra Fiat, Fim e Uilm per Pomigliano, durante un incontro in cui la Fiom era presente solo nella veste di osservatore. In quella circostanza, dopo un primo tentennamento persino i rappresentanti metalmeccanici di Cisl e Uil storsero il naso e l'ipotesi venne accantonata. Se ne tornò a parlare in occasione del referendum imposto da Marchionne nello stabilimento di Pomigliano il cui esito - quel 40% di no tra gli operai - lo fece tanto soffrire. Si tratta però di una bomba che produce effetti devastanti anche senza, o prima di, esplodere, per quel portato di minaccia e ricatto che incorpora. Viene agita mentre si mette uno stabilimento contro l'altro, Mirafiori contro Kragujevaz, muovendo modelli di vetture e lavoratori come pedine di un gioco le cui regole sono scritte e imposte da un uomo solo al comando.
Marchionne se lo può permettere perché non ha interlocutori politici forti e responsabili, tant'è che solo di fronte alla minaccia di svuotare Mirafiori il governo, spinto dalle sue anime più razziste, ha convocato azienda e sindacati. Anche in campo democratico si sono sentite voci stonate di chi sta al gioco della Fiat, contrapponendo i buoni operari torinesi a quegli irresponsabili dei napoletani o agli inaffidabili slavi di Kragujevac. Un incontro, il 28, per discutere non si sa bene di cosa: ragionare su uno stabilimento alla volta vuol dire lasciare il gioco nelle mani della Fiat. In nome, naturalmente, della competitività che presuppone lo scontro tra navi da guerra, multinazionale contro multinazionale, stabilimento contro stabilimento, operaio contro operaio. Una guerra dove il prezzo di sangue verrebbe pagato sempre e solo dai lavoratori. La ragione dell'accanimento del nuovo Von Klausevitz italo-elvetico-canadese contro la Fiom sta nel fatto che, per ora, il sindacato di Landini rappresenta l'unico ostacolo della corsa di Marchionne verso il delirio.
p.s. Non tutti i mali vengono per nuocere. A prescindere dai piani di Marchionne, o forse anche temendo rappresaglie da parte della Fiat, la Fiom ha deciso di lanciare una impegnativa campagna di rinnovo di tutte le deleghe, contattando uno a uno gli iscritti per verificare la loro intenzione di rinnovare la tessera e intercettando lavoratori non iscritti per convincerli a battersi al fianco della Fiom. Sembrerebbe normale, una verifica democratica necessaria, ma non lo fa nessun sindacato, approfittando dell'automatismo garantito dalla trattenuta sindacale effettuata in busta paga direttamente dalle aziende, come prevede quel contratto nazionale dei metalmeccanici di cui Marchionne tenta in tutti i modi di liberarsi. Per la Fiom, quest'atto coraggioso di democrazia e di rispetto della volontà dei lavoratori potrebbe sortire effetti anche molto positivi. Una sfida aperta alle imprese e ai sindacati complici.

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