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lunedì 10 gennaio 2011


Cremaschi: Sì, quello di Marchionne è fascismo aziendale


 Ma davvero bisogna abbassare i toni e non usare la parola fascismo per definire quanto sta avvenendo a Mirafiori, a Pomigliano, in Fiat? In tanti hanno considerato una forzatura l’uso di questa parola. Ma che scherziamo? Questa sarebbe la dimostrazione che chi si oppone all’accordo di Mirafiori è fuori dal tempo e dalla storia.

Vediamo allora in concreto cosa succederà a Mirafiori se si applica l’accordo. Oltre a danni drammatici alla condizione di lavoro e a tutti i loro diritti, i lavoratori perderanno le libertà sindacali. Gli unici sindacati ufficialmente ammessi in azienda saranno quelli firmatari dell’accordo, i quali avranno diritto a una rappresentanza sindacale da essi nominata. Quindi la Fiom e tutti coloro che si oppongono all’accordo saranno esclusi dalla rappresentanza sindacale che però, a sua volta, non sarà più elettiva ma di nomina dall’alto.

Ha suscitato scandalo anche l’accostamento che abbiamo fatto con l’accordo del 2 ottobre 1925 a Palazzo Vidoni. Allora il presidente del Consiglio, Mussolini, la Confindustria, i sindacati nazionalisti fascisti e corporativi sottoscrissero la fine delle commissioni interne aziendali elette dai lavoratori e il passaggio al regime dei “fiduciari” nominati dai sindacati firmatari dell’accordo. La si può girare come si vuole, ma questo è il solo precedente a cui far riferimento per l’accordo di Mirafiori che tanti definiscono storico.

Si elimina l’opposizione e si inibisce ogni reale libertà di scelta sindacale. Non solo non ci saranno più le elezioni ma i lavoratori non potranno più iscriversi alla Fiom e ai sindacati che non hanno firmato l’accordo, né potranno più tenersi libere assemblee. Come chiamare questo? Se un presidente del Consiglio decidesse che per far quadrare i conti del bilancio pubblico bisogna cancellare il parlamento elettivo e mettere fuorilegge l’opposizione, come definiremmo tutto questo? Ma si sa, la fabbrica è considerata un mondo a parte, le regole della democrazia che sono scontate quando si sta fuori dai cancelli diventano tutte opinabili quando li si varca. Così può acquisire anche una patina di democraticità un referendum che dovrebbe sanzionare la fine delle libertà a Mirafiori.

Dove trovare i precedenti storici rispetto a una consultazione che si presenta come l’ultima? Se dovesse passare il sì e l’accordo fosse davvero applicato i lavoratori voterebbero per l’ultima volta, anzi, rinuncerebbero per sempre a votare sulle proprie rappresentanze sindacali, sugli accordi, sulle condizioni di lavoro. Come definire un voto di rinuncia ai diritti democratici fondato sul ricatto della perdita del posto di lavoro? Non ricorda i plebisciti autoritari con cui tante dittature hanno messo fine alla democrazia?

E, infine, visto che questo a Marchionne non basta ancora, come giudicare il fatto che se passa il sì poi i lavoratori di Mirafiori, uno per uno, saranno licenziati dalla Fiat e riassunti nella nuova società di produzione solo se sottoscriveranno l’accettazione piena di tutte le condizioni di lavoro imposte e la rinuncia a qualsiasi rivalsa e tutela, pena il licenziamento? Che questo sia un moderno fascismo aziendale non c’è alcun dubbio. La domanda che si può porre è se l’Italia possa restare una democrazia se questo regime si diffonde in tutti i luoghi di lavoro.

Si sostiene che questo è semplicemente il modello americano. L’America è una grande democrazia, che resta tale anche se nelle fabbriche c’è il fascismo. E’ bene però ricordare che negli anni Trenta il presidente democratico Roosvelt considerava una forma di fascismo e una minaccia per la democrazia americana il governo autoritario della fabbrica di Henry Ford. Si può comunque pensare che la minaccia di Marchionne sia stemperata nella dimensione dei conflitti e dei problemi degli Usa. In Italia però non è così. Siamo un paese nel quale da quindici anni il berlusconismo destruttura la democrazia. L’assalto alle libertà sindacali di Marchionne potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso verso un sistema autoritario.

Questa è la posta in gioco in Fiat, ed è per questo che in tanti, esterni al mondo metalmeccanico e anche, per fortuna, esterni al palazzo che a destra e a sinistra si è inchinato di fronte a Marchionne, oggi sostengono la resistenza della Fiom.


 Intervista a un sindacalista americano 


 ROMA - "Sergio Marchionne recita in Italia un copione già scritto qui negli Stati Uniti. Alla Fiat si riproduce l'attacco ai sindacati che da anni è in atto nelle imprese americane. Guai a sottovalutarne la gravità: la rappresentanza dei lavoratori, l'organizzazione sindacale, sono l'ultimo baluardo contro l'imbarbarimento della società e l'impoverimento della democrazia. Anche i referendum di fabbrica sotto un clima d'intimidazione, li conosciamo bene". Peter Olney è uno dei maggiori leader sindacali americani. Dirige la Unione più potente della West Coast, Ilwu, organizza categorie che vanno dai portuali ai dipendenti dei trasporti e della logistica. E' anche un teorico con una visione globale, una sorta di Bruno Trentin americano: da giovane studiò anche Scienze politiche all'università di Firenze e ha insegnato all'università di Berkeley. La posta in gioco nel caso Fiat gli è familiare.
In Italia Marchionne sembra a suo modo un "rivoluzionario", che osa sfidare tabù consolidati, lei invece lo considera come "déjà vu"?
"Il chief executive di Fiat-Chrysler non fa che ripetere tutte le mosse dei top manager di General Motors, Ford. Il ricatto ai lavoratori usa un linguaggio a cui siamo abituati: gli operai vengono descritti come dinosauri, relitti di un'era al tramonto, costretti ad accettare i diktat dall'alto perché altrimenti poco competitivi, quindi condannati a perdere il posto. In quanto
ai referendum sotto ricatto, di recente se n'è tenuto uno alla fabbrica della Nissan nel Tennessee, per decidere proprio sulla questione della rappresentanza sindacale. Dopo una campagna di pressioni, minacce, intimidazioni da parte dell'azienda, i lavoratori hanno finito per piegare la testa e votare contro il sindacato. Oggi il sindacato americano riparte proprio da questo: vogliamo imporre un codice di condotta, che impedisca alle aziende di impaurire i lavoratori manipolando le consultazioni referendarie".
Tra i metalmeccanici americani il sindacato ha perso terreno paurosamente. In che misura paga l'effetto delle delocalizzazioni?
"Noi le delocalizzazioni le abbiamo addirittura in casa. La minaccia più concreta non è il trasferimento di fabbriche all'estero, ma in quegli Stati Usa del Sud dove viene impiegata solo manodopera non sindacalizzata, a condizioni nettamente peggiori. Tra il 1993 e il 2008 il Michigan, culla storica dell'industria automobilistica, ha perso 83.000 metalmeccanici. Nello stesso periodo il Tennessee ne ha guadagnati 91.000. Toyota, Hyundai, Volkswagen hanno scelto gli Stati della "cintura nera meridionale", South Carolina, Mississippi, Tennessee, per tagliar fuori il sindacato. United Auto Workers, la confederazione dei metalmeccanici, è scesa da un milione di iscritti 30 anni fa a 400.000 oggi. Nell'ultima recessione l'Uaw ha dovuto accettare salari dimezzati, da 30 a 14 dollari orari per i nuovi assunti. E' il modello che Marchionne sta importando da voi".
Ma la dottrina Marchionne ha dalla sua una sorta di ineluttabilità. Con la globalizzazione, è insostenibile la sopravvivenza di fabbriche che non reggono i confronti internazionali. Chi fa l'interesse degli azionisti prima o poi dovrà chiuderle e trasferire la produzione altrove.
"Se io ho studiato nelle stesse Business School dei top manager, è anche perché ero stanco di subire l'egemonia culturale di queste analisi. Le decisioni sulla localizzazione degli stabilimenti sono nella realtà più complesse di quanto vogliano farci credere. Soprattutto in settori ad alta intensità di capitale, con tecnologie sempre più sofisticate, i differenziali salariali non sono il criterio decisivo. Entrano in gioco altri fattori: l'accesso ai mercati nazionali, la disponibilità di infrastrutture, la qualità dei centri di ricerca e design. Infine una parola passata di moda: le politiche industriali dei governi. In Occidente parlarne oggi sembra una follìa? Però il governo cinese la politica industriale la fa, eccome".
Al di là del settore metalmeccanico, quanto è grave il declino del sindacato in America? Con quali conseguenze politiche?
"Nel 1955 le Unions organizzavano il 35% della manodopera delle imprese private, oggi siamo appena al 7%. I sindacati sono anzitutto un fattore di redistribuzione, così è caduto ogni argine alle diseguaglianze sociali. Nel 1955 un chief executive guadagnava 25 volte più del suo operaio, oggi guadagna 450 volte il salario operaio. Conseguenze politiche: nel 2008 Barack Obama ha avuto uno scarto del 18% in più tra i lavoratori sindacalizzati. L'appartenenza sindacale, con quel che significa in termini di diritti di cittadinanza, porta con sé una visione del mondo, un sistema di valori. Senza sindacato la società diventa una clessidra: in alto si concentra il potere, in basso c'è un vasto esercito di lavoratori impoveriti e impotenti, viene a mancare un centro".