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giovedì 28 ottobre 2010

Noi operai tedeschi più produttivi e con duemila euro netti al mese, da Repubblica


BERLINO - «Lavorare di più, come facciamo noi qui costruendo con passione le limousines col cerchio bianco e blu sul muso? Non so come sia da voi, ma da noi la perfezione costa: una buona paga, e la sicurezza del lavoro». Heinz, 31 anni, operaio Bmw, marito e padre di due bimbe alla periferia industriale di Monaco, sa quel che dice. «Più produttività?», incalza al telefono Gerd, 27 anni, scapolo di Wolfsburg, uno dei tanti che montano la Golf sognata dai giovani in tutto il mondo. «Noi la garantiamo, e abbiamo rinunciato alla voglia di aumenti continui. Ma in cambio il posto è sicuro. E 2.700 lordi alla catena di montaggio non sono pochi». Germania dell' auto, freddo autunno del 2010: qui la classe operaia non sogna d' andare in paradiso: è già piccola borghesia. Con la IgMetall come sindacato fortissimo, quasi una Confindustria dei Cipputi. Visto da qui, il dibattito aperto da Marchionne sembra cronaca da un altro mondo. Un freddo quasi da annuncio d' inverno russo, nella pianura bassosàssone, gela la Wolfsburg di fine ottobre. Al telefono ascolto gli operai di Volkswagen e Bmw. Il numero uno europeo dei generalisti, ma con in tasca marchi di lusso da far invidia, e il campione mondiale del premium. Sentiamo come i loro operai vivono e fanno i conti a ogni fine mese. «Con l' inizio della crisi internazionale», racconta Heinz, «arrivò la paura anche da noi. Vendite in crollo, parcheggi pieni di auto invendute. Col padrone per fortuna riuscimmo a negoziare, "loro" furono negoziatori duri ma anche partner capaci di ascoltare. Orario corto, meglio della cassa integrazione. Niente più straordinari, per molti rinuncia alla tredicesima. Accettammo di spostarci a rotazione tra Monaco, Dingolfing e Ratisbona, dove sorgono i tre grandi impianti, per dare più lavoro dove più serviva. Ma niente "taglio di esuberi", come si dice da voi». Governare insieme la nave nella tempesta fu più facile, con alle spalle decenni di concertazione inventata qui. «Adesso è cambiata la musica», spiega ancora il giovane padre di famiglia bavarese. «Gli impianti lavorano a pieno ritmo, straordinari a non finire». Ma la borghesia operaia del Mitteleuropa postmoderno raccoglie com' è giusto i suoi vantaggi. Moderazione salariale sì. «Ma da noi in Volkswagen l' operaio semplice alla catena di montaggio ha 2.750 euro lordi, l' addetto alla manutenzione tra 3.300 e 3.500», mi spiega Gerd. «Certo, il prelievo Irpef è pesante. Però i premi notturno valgono il 45% del salario mensile, altre indennità e il supplemento domenicale esentasse ci regalano un altro 30%. Poi io sono scapolo, ma per chi ha figli il Kindergeld, l' assegno familiare, vale 184 euro mensili per ogni bimbo. Pagare fitti per case belle, o un mutuo per una porzione di villino a schiera, è quotidiano possibile, non sogno. E in ferie da voi o in Francia o Spagna mi fa paura quanto meno posso comprare con un euro, rispetto che a casa». Facciamo i conti, con l' aiuto di un commercialista. All' operaio alla catena di montaggio, se è scapolo, dei 2.750 euro ne restano 1.714, se è sposato senza figli 1.975. All' addetto alla manutenzione dei 3.500 euro da scapolo ne rimangono 2.069, da sposato senza figli 2.377. Più straordinari, notturno, e extra domenicale, più 184 euro mensili per ogni figlio. Appartamenti decorosi in palazzine immerse nel verde a Wolfsburg. Immobili simili o villini a schiera attorno alle tre città della Bmw. «Io sono troppo giovane - racconta Gerd di Wolfsburg - so solo dai racconti dei colleghi anziani del trauma del ' 93, l' accordo salvalavoro, orario corto e molto meno salario per lavorare tutti. Oggi il padrone ha utili per miliardi di euro, le ultime intese sulla moderazione salariale significano in pratica che in cambio è impossibile licenziarci. E con voli low cost o ferie tutto compreso la vacanza di famiglia fuori confine torna possibile. A Mallorca, in Croazia o magari da voi in Italia».

mercoledì 27 ottobre 2010

Fiat, la falsa scorciatoia della de-localizzazione

di Luciano Gallino
Se si mettono insieme diagnosi e proposte formulate in tv dall'ad Sergio Marchionne si è forzati a concludere che il grosso della produzione di Fiat auto è ormai destinato a svilupparsi all'estero. Non si vede infatti come sia possibile raccordare le prime con le seconde.

Dal lato delle diagnosi, l'ad forse esagera quando afferma che l'Italia è al 118/mo posto su 139 per efficienza del lavoro, ma ha ragione nel dire che negli ultimi 10 anni l'Italia non ha saputo reggere il passo con gli altri paesi - aggiungendo subito che non è colpa dei lavoratori. Il problema è che da parte sua neanche la Fiat ha saputo reggere il passo con gli altri costruttori europei. Una parte delle difficoltà del gruppo proviene certo dalla situazione del paese. Però di suo, nel decennio, Fiat ci ha messo sia la difficoltà a produrre e vendere su larga scala modelli di fascia medio-alta, quelli su cui si guadagna sul serio (anche quando ne aveva di eccellenti, come accadde con l'Alfa 156), sia una organizzazione complessiva della produzione, e con essa della filiera della fornitura, che ha ridotto a livelli troppo bassi l'utilizzazione degli impianti nazionali. Si parla del 30-40 per cento, mentre gli stabilimenti francesi e tedeschi fan segnare tassi di utilizzazione all'incirca doppi.

Se questi sono i problemi cruciali di Fiat Auto, è arduo capire come il famoso piano Fabbrica Italia riesca a risolverli. Forse riducendo le pause da due di 20 minuti a tre di 10 minuti, come a Pomigliano e a Melfi? Oppure introducendo la nuova metrica del lavoro contenuta nel documento di aprile (19 pagine su 36!) che sotto l'etichetta dell'ergonomia intensifica in ogni minuto secondo la prestazione fisica e mentale dell'operaio? Allo scopo di far salire l'utilizzazione degli impianti la soluzione starebbe semmai nella concentrazione della produzione in due o tre stabilimenti, e nel completo ridisegno della filiera della componentistica, in modo da ridurre drasticamente i chilometri che ogni pezzo percorre prima di arrivare dove viene montato. Può anche darsi che la soluzione che Fiat ha in mente sia appunto questa. Ma se tale fosse il disegno, sarebbe preferibile dirlo, piuttosto che girare attorno alla questione insistendo sull'anarchia degli stabilimenti italiani che impedisce di produrre, per addetto, quanto in Polonia o in Argentina.

L'ad Marchionne ha anche detto - così riportano le cronache - che se le anomalie della gestione degli stabilimenti italiani cessassero, sarebbe disposto a portare il salario dei dipendenti a livello dei nostri paesi vicini. Questi sono la Francia, la Svizzera e l'Austria. Poco più in là c'è la Germania. Ora, nel 2008, il salario annuo lordo dei dipendenti dell'industria e dei servizi, esclusa pubblica amministrazione, istruzione, sistema sanitario e simili, era - a parità di potere d'acquisto - di circa 23.000 euro in Italia, 30.000 in Francia, 35-36.000 in Svizzera e Austria, 42.000 in Germania. Portare i nostri salari a livello dei vicini significherebbe dunque aumentarli tra il 30 e l'80 per cento.

Roba da correre subito, se uno ci crede, a sottoscrivere il piano Fabbrica Italia. Se non fosse che quel piano dovrebbe prima spiegare come si raddoppia o magari si triplica l'utilizzazione degli stabilimenti Fiat in Italia; come si articola la produzione di quei due terzi di auto che sono fabbricati al di fuori di essi; e come si pensa di affrontare nei prossimi anni un mercato europeo dove i costruttori francesi e tedeschi propongono al momento 20-22 modelli di auto ciascuno, grosso modo il doppio di Fiat, ed i consumatori probabilmente non aspettano il 2014 se hanno intenzione e mezzi per cambiare la macchina. In mancanza di questo corredo esplicativo, lo scenario cui dobbiamo guardare con rammarico e preoccupazione è una Fiat, unico tra i grandi costruttori europei, che in sostanza si accinge a fare del suo paese uno dei tanti in cui de-localizza secondo convenienza le sue produzioni. 

lunedì 25 ottobre 2010



di Giorgio Cremaschi

Tutto sommato bisogna ringraziare la trasmissione di Fazio. Anche se le intenzioni erano evidentemente diverse e volevano riequilibrare a  favore della Fiat l’effetto della manifestazione del 16 ottobre, il risultato è stato paradossale. Sergio Marchionne, con la possibilità di esprimersi senza alcun contraddittorio, si è manifestato in tutta la sua brutale arroganza.
L’Amministratore delegato della Fiat si è scagliato contro l’anarchia dei suoi stabilimenti e dell’Italia per giustificare il fatto che non è in grado di presentare, in televisione come nelle trattative, un programma, un prodotto, una strategia. Grazie a quella trasmissione si è potuto così verificare che la campagna mediatica contro la Fiat che Marchionne ha lamentato, viene dalla Fiat stessa. E’ la direzione stessa dell’azienda, che con dati privi di qualsiasi fondamento e con atteggiamenti sprezzanti da padroni delle ferriere o da pessima multinazionale, si fa campagna contro.
Dopo l’uscita televisiva di Marchionne le ragioni della Fiom sono più valide e chiare agli occhi di tutti.

domenica 24 ottobre 2010

Un nuovo paradigma per l’Ue dopo Cristo


di Franco Berardi "Bifo"
All’inizio dell’autunno 2010 Sergio Marchionne ha dichiarato che lui vive nell’epoca dopo Cristo, e non può stare ad ascoltare le considerazioni che provengono da gente che vive nell’epoca prima di Cristo. La blasfema metafora di Marchionne vuol dire che da quando esiste la globalizzazione non si possono rivendicare quei diritti e quelle garanzie sociali che vigevano prima della globalizzazione. Se dobbiamo competere con economie emergenti nelle quali il costo del lavoro è inferiore al costo del lavoro degli operai europei, dobbiamo abbassare i salari europei. Se dobbiamo competere con economie nelle quali l’orario di lavoro è illimitato e le condizioni di lavoro sono selvagge – scarse garanzie di sicurezza sul lavoro, turnazioni massacranti, precarietà del rapporto di lavoro – anche in Europa bisogna abolire i limiti all’orario settimanale, rendere obbligatorio lo straordinario, rinunciare alla sicurezza del posto di lavoro e così via. In termini brutali così potremmo tradurre il pensiero di Sergio Marchionne (che del resto esprime il pensiero ufficiale dell’Unione europea dopo la svolta seguita alla crisi greca di primavera): l’evoluzione del capitalismo richiede l’abrogazione di fatto dei principi che discendono dalle tradizioni Socialista, Illuminista e Umanista, e naturalmente dei principi che definiscono la democrazia, ammesso che questa parola significhi qualcosa. Vorrei aggiungere un’ultima considerazione, giocando un po’ con la metafora cristologica del signor Marchionne. Nell’epoca dopo Cristo di cui parla lui anche il principio cristiano dell’amore per il prossimo va cancellato, ridotto al più a predica domenicale.

E’ questa l’Europa che vogliamo? A questa immagine di sé ha deciso di piegarsi l’Europa? Ed il pensiero marchionnico coincide con la politica dell’Ue?
Naturalmente più che di principi qui si tratta di rapporti di forza. Negli ultimi anni la classe finanziaria, dominante nel governo economico del mondo, ha usato le potenze tecniche globalizzanti per aumentare enormemente la quota di ricchezza che in forma di profitto e di rendita finanziaria va nelle tasche di una minoranza. La classe operaia e il lavoro cognitivo multiforme non hanno potuto resistere all’attacco seguito alla globalizzazione. 
Questa distribuzione della ricchezza confligge però con la stessa possibilità di uno sviluppo ulteriore del capitalismo perché la riduzione del salario globale provoca una generale riduzione della domanda. Si sta verificando un effetto di impoverimento che rende la società sempre più fragile e aggressiva, ma anche un effetto deflattivo che rende impossibile lo stesso rilancio della crescita.
Come se ne esce? Il signor Marchionne e i suoi sodali, che vivono nell’epoca dopo Cristo, fanno questo ragionamento: se la deregulation ha prodotto il collasso sistemico col quale sta facendo i conti l’economia globale, allora occorre maggiore deregulation. Se la detassazione degli alti redditi ha portato al restringimento della domanda, allora ci vuole un’ulteriore detassazione degli alti redditi, se l’iper-sfruttamento ha portato a una sovraproduzione di automobili invendute ed inutili, allora occorre intensificare la produzione di auto. Sono forse pazzi, costoro? Penso di no, penso che siano incapaci di pensare in termini di futuro, che siano nel panico, terrorizzati dalla loro stessa impotenza. Hanno paura. Tutto quello che sanno fare è aumentarsi lo stipendio e i dividendi per i loro commensali.
La borghesia moderna era una classe fortemente territorializzata, legata a un patrimonio materiale che non poteva prescindere dal rapporto con il luogo, con la comunità. Il ceto finanziario che domina la scena del nostro tempo non ha alcun rapporto di affezione col territorio né con la produzione materiale, perché il suo potere e la sua ricchezza si fondano sull’astrazione perfetta della finanza moltiplicata per il digitale. L’iper-astrazione digital-finanziaria sta liquidando il corpo vivente del pianeta, e il corpo sociale.
Ma può durare? Dopo la crisi greca si è costituito un direttorio Merkel-Sarkozy-Trichet che ha stabilito, senza alcuna consultazione dell’opinione pubblica, di concentrare dal 2011 il potere di decisione sull’economia dei diversi paesi esautorando di fatto ogni istanza parlamentare. Potrà davvero questo direttorio commissariare la democrazia nell’Unione, sostituirla con un comitato d’affari che fa capo ai direttori delle grandi banche? Potrà imporre un sistema di automatismi per i quali, se vuoi far parte dell’Unione devi ridurre i salari dei dipendenti pubblici, licenziare un terzo degli insegnanti e così via?
Il 16 ottobre a Roma e a Parigi si sono tenute due immense manifestazioni che mi fanno pensare che la dittatura finanziaria non riuscirà a stabilizzarsi. 
Può darsi che Sarkozy riesca a far passare la legge che prolunga il tempo di vita lavoro fino a 65 anni, e in Italia le politiche di taglieggiamento del salario operaio e dei diritti operai non finiranno certo con la prossima caduta del governo Berlusconi.
Questo lo so. Ma nei paesi latini (cattolici) del mondo europeo la dittatura europea non si stabilizzerà, perché nei prossimi mesi e nei prossimi anni assisteremo a un diffondersi, contraddittorio, talvolta violento, ma persistente di insubordinazione sociale che sempre più individuerà il vero nemico – non nei governi nazionali, ma nell’Unione stessa, nel suo direttorio granitico e nelle sue tecniche di governance apparentemente neutrali. E allora a quel punto occorrerà abbattere l’Europa presente, perché l’Europa possibile emerga finalmente.
Allora dovremo chiederci: ma è proprio vero che dobbiamo competere secondo la regola economica? Se proprio di competizione dobbiamo parlare (e la parola è sbagliata) perché non pensare alla competizione tra stili di vita, modalità dello spirito pubblico, livelli di felicità e di godimento per l’organismo sensibile collettivo? Non sono forse questi criteri che nel lungo periodo dell’evoluzione umana possono avere una forza attrattiva superiore al prodotto nazionale lordo, alla quantità di petrolio bruciato, e al numero di centrali nucleari?
Quello che vogliono gli esseri umani (fin quando non sono preda di un’ossessione psicotica che si chiama avarizia) è vivere in modo piacevole, tranquillo, possibilmente a lungo, consumando ciò che è necessario per mantenersi in forma e per fare all’amore.
Tutti quei valori politici o morali che hanno reso possibile il perseguimento di uno stile di vita di questo genere li abbiamo chiamati un po’ pomposamente “civiltà”.
Ora vengono i Marchionne a raccontarci che se vogliamo continuare a giocare il gioco che si gioca nelle borse e nelle banche, dobbiamo rinunciare a vivere in modo piacevole, tranquillo, eccetera. Ovvero dobbiamo rinunciare alla civiltà. Ma perché dovremmo accettare questo scambio? L’Europa è ricca non perché l’euro è solido sui mercati internazionali o perché i manager fanno quadrare i conti del loro profitto. L’Europa è ricca perché ci sono milioni di intellettuali di scienziati e di tecnici, di poeti e di medici, e milioni di operai che hanno affinato per secoli il loro sapere. L’Europa è ricca perché nella sua storia ha saputo valorizzare la competenza e non solo la competitività, ha saputo accogliere e integrare culture diverse. È ricca anche, bisogna pur dirlo, perché per quattro secoli ha sfruttato ferocemente le risorse fisiche e umane degli altri continenti.
Dobbiamo rinunciare a qualcosa, ma a cosa precisamente? 
Certamente dovremmo rinunciare all’iper-consumo imposto dalle grandi corporation, ma non credo che dovremmo rinunciare alla tradizione umanistica, a quella illuminista e a quella socialista, cioè alla libertà, al diritto e al benessere. Non perché siamo affezionati a dei principi del passato, ma perché questi rendono possibile una vita decente, mentre i criteri che propongono in Marchionni garantiscono per la maggioranza una vita infernale. 
La prospettiva che si apre non è quella di una rivoluzione, concetto che non corrisponde più a niente perché implica un’esagerata considerazione della volontà politica sulla complessità della società presente. Quella che si apre è la prospettiva di una transizione paradigmatica. Un nuovo paradigma, che non sia più centrato intorno alla crescita del prodotto, intorno al profitto e all’accumulazione, ma fondato sul pieno dispiegamento della potenza dell’intelligenza collettiva. Non credo che l’Europa abbia qualcosa da insegnare alle altre civiltà del pianeta. Può dare un contributo originale, come nel bene o nel male ha fatto nel passato in più occasioni.
Abbiamo imposto il modello capitalistico, e ora cerchiamo la via per venirne fuori. Non per venire fuori dal capitalismo, che come ogni altro modello economico (lo schiavismo, il feudalesimo) è incancellabile – ma per venire fuori dalla sua dominanza incontrastabile. Autonomia della società dal dominio del capitale, dispiegamento delle potenze che il capitale ha realizzato nella sua convivenza conflittuale con il lavoro. Questo è il contributo originale che l’Unione europea, quella possibile, quella del dopo-dopo-Cristo che Marchionne non riesce neppure a immaginare, potrebbe consegnare alla storia del mondo.


sabato 23 ottobre 2010

CONTRATTI, LA FREGATURA IN BUSTA PAGA

di Loris Campetti
Poveri operai metalmeccanici, cornuti e mazziati. In primis si beccano un contratto separato tra la Federmeccanica e i sindacati minoritari Fim e Uilm. In secundis si ritrovano tra capo e collo un nuovo accordo, sempre separato, che prevede le deroghe al contratto separato di cui sopra, con cui si cancella lo stesso istituto contrattuale. Terza mazzata, viene negato il diritto a discutere e votare quel che è stato deciso, senza delega alcuna, sulla loro pelle. Potrebbe bastare, e invece no: l'accordo separato prevede che a pagare per la tripla fregatura debbano essere i lavoratori non iscritti a Fim e Uilm, previa trattenuta di trenta euro (ricordate i denari di Giuda?) in busta paga.
Perché trattare costa fatica, e si sa quanto Fim e Uilm abbiano dovuto combattere con la Federmeccanica per strappare quel bidone di contratto. Ma siccome Bonanni, Angeletti e i loro soci metalmeccanici sono democratici e generosi, fanno sapere che se proprio qualche lavoratore non volesse pagare l'obolo, dovrebbe riempire un modulo da consegnare al padrone (e a chi, sennò?) rifiutando il contributo. Altrimenti vale la regola del silenzio-assenso.
Provate a pensare a un operaio di Pomigliano che ha votato no al diktat della Fiat e di ragioni d'incazzatura ne ha una in più dei suoi colleghi: dopo tutti gli schiaffi presi si vede presentare il conto da chi li vuole (sindacalmente) morti per interposto padrone. Poi dicono che due uova strapazzate sono una forma di violenza criminale.
Ci dicono che bisogna ricostruire l'unità sindacale perché divisi si è più deboli. Parole sante. Ma chi insiste su questa ovvietà dovrebbe anche dire come si possa ricostruire l'unità con gli autori di queste politiche sindacali. E' già straordinario - dentro la crisi che sta falcidiano occupazione, lavoratori, redditi, solidarietà - che un sindacato come la Fiom riesca a ricostruire l'unità con la maggioranza dei lavoratori, quelli che sabato hanno riempito Roma. Facciamo un esempio: ieri la Fiat ha presentato i conti del terzo trimestre 2010 con un utile netto di 190 milioni. Peccato che nell'auto sia pesantemente caduto il fatturato per il calo delle vendite e la quota Fiat sia scesa sia in Italia che in Europa. Ma allora come riesce a fare soldi Marchionne? Azzerando gli investimenti in Italia per l'anno in corso e per il prossimo, visto che i modelli previsti per il 2011 sono già slittati al 2012; tenendo in cassa integrazione un quarto della forza lavoro del gruppo, e nell'auto molti di più; non pagando il premio di risultato ai dipendenti che corrisponde a un mese di stipendio se rapportato al 2008 e a mezzo stipendio rispetto al 2009. Così si fanno utili, si distribuiscono dividendi agli azionisti e si paga l'amministratore delegato 435 volte più del suo operaio. Ebbene, di fronte a questi dati volete sapere qual è stato il commento del segretario Cisl Bonanni? «Sono dati positivi, dovremmo avere un'abbondanza di dati come questi per capire che stiamo uscendo dalla crisi». Forse lui pensa solo a uscire dalla crisi della Cisl, magari mettendo le mani nelle tasche degli operai a cui ha tolto diritti, poteri, salario e voto. Bisognerà vedere il risultato.

giovedì 21 ottobre 2010

LA PIAZZA FIOM: COSA VIENE DOPO


di Paolo Flores d’Arcais - Il Fatto Quotidiano
Per capire se la manifestazione della Fiom di sabato sia stata solo un grande successo o costituisca invece una potenziale svolta storica per la vita politica e sociale del paese è necessario approfondire cinque punti: dimensioni numeriche della partecipazione, strategia sindacale radicalmente alternativa avanzata dal segretario Fiom Landini, capacità o meno di unificare lavoratori occupati con disoccupati e precari, capacità di unificare lotte sociali e lotte civili, implicita necessità di una proiezione politica di tutto ciò.

COMINCIAMO dai numeri. I mass media non hanno potuto disconoscere il successo, ma ne hanno oscurato sapientemente le dimensioni, che sono state invece del tutto fuori dell’immaginabile. Eppure tutti i giornalisti hanno visto quello che Luca Telese ha puntualmente raccontato ai lettori deIl Fatto: dopo quattro ore di manifestazione, quando durante l’ultimo discorso, quello di Epifani, molta gente cominciava a tornare a casa, via Merulana era gremita dal corteo, la cui coda doveva ancora muoversi da piazza Esedra. Ma gli altri giornalisti si sono ben guardati dal riferire la circostanza ai rispettivi lettori e telespettatori.
Perché ciò avrebbe implicato il riconoscimento che neppure il Circo Massimo sarebbe stato sufficiente per quel mare di dimostranti. E poiché la manifestazione di otto anni fa al Circo Massimo con Cofferati era stata riconosciuta come la più grande nella storia della nostra Repubblica… Quella dei numeri non è dunque questione filologica o maniacale. Se la dimensione della manifestazione non fosse stata occultata, se ci fosse stata una diretta, con le canoniche riprese dall’alto, tutti sarebbero oggi costretti a discutere sulla “scandalosa” capacità di consenso di una forza sindacale data come “isolatissima” e sul carattere di punto di riferimento generale e nazionale che la sua piattaforma “radicale” si è conquistato.
PERCHÉ è verissimo che Maurizio Landini ha fatto un discorso privo di divagazioni ideologiche, da leader sindacale tutto concretezza, ma proprio in questa concretezza sono ritornate parole ormai scomparse da anni presso i vertici della Cgil, come “ribellione” e “sfruttamento”, ed è stata delineata una linea sindacale organica e alternativa su almeno tre questioni: primo, la contrattazione deve sempre più andare in direzione di grandi contratti nazionali, addirittura per compartimenti produttivi (industria, commercio, ecc.) anziché per categorie (metalmeccanici, chimici, tessili, ecc.).
Questo significa che un contratto nazionale dell’industria è il minimo vincolante per tutti gli imprenditori, senza possibilità di deroghe, poiché le uniche ammesse saranno quelle migliorative dei contratti integrativi settoriali o locali. Con il che siamo agli antipodi del modello Pomigliano, siamo allo scontro frontale con Finmeccanica e Confindustria, siamo alla rottura con Bonanni che grida “dieci, cento, mille Pomigliano”.
SECONDO, la proposta di un salario “di cittadinanza” per tutti, che dunque vada oltre la cassa integrazione, che tuteli in radice il disoccupato. Novità radicale nelle strategie sindacali italiane, fin qui sempre sospettose sul tema, che invece in gran parte dei Paesi d’Europa è conquista storica irrinunciabile (accettano solo che si discuta come rafforzarla evitando al contempo alcuni possibili effetti perversi di “disoccupazione volontaria”). Proposta accompagnata a quella del salario minimo per tutti i comparti produttivi, alla impossibilità che il lavoro precario venga remunerato meno di quello fisso, alla distruzione della frammentazione contrattuale nella stessa fabbrica tra chi dipende dall’azienda, dalla “cooperativa” di un subappalto, ecc.
Anche qui siamo esattamente agli antipodi del modello che invece governo e padroni (parola che alla Fiom si usa ancora) pretendono venga accettato come necessità “obiettiva” imposta dalla globalizzazione.
TERZO, l’obbligo (addirittura per legge) della democrazia contrattuale, cioè del voto della base dei lavoratori su qualsiasi contratto, nazionale o integrativo. Il che significa l’impossibilità di firmare contratti separati con Cisl e Uil e il dovere di lasciare ai lavoratori l’ultima parola anche per vertenze concluse con la firma unanime dei sindacati. Una vera e propria “rivoluzione copernicana” che ricrea le premesse per una unità dal basso, radicata negli interessi dei lavoratori e che batterebbe in breccia gli interessi di burocrazie sindacali troppo impegolate con l’establishment.
È questa strategia alternativa ad essere stata consacrata dall’inaudito successo della manifestazione di sabato. È su queste posizioni di sindacalismo innovativo che è stato “incoronato” Maurizio Landini. Non perché “radicali” ma perché le posizioni del gruppo dirigente Fiom hanno dimostrato di essere le uniche a poter unificare tutto il mondo del lavoro occupato (non a caso a riconoscersi nella lotta dei metalmeccanici c’erano dalle tessili dell’Omsa ai chimici di Porto Torres), cioè a realizzare come dirigenti metalmeccanici quello che dovrebbe essere il compito della Cgil.
MA LA STRATEGIA della Fiom si è dimostrata anche l’unica capace di parlare ai precari e ai disoccupati, compiendo quello che sembrava un impossibile miracolo: colmare tra lavoratori “garantiti” e non, un fossato che sembrava destinato inesorabilmente ad accrescersi fino a diventare baratro anche esistenziale.
Questa è forse la novità più carica di conseguenze e la meno evidenziata: il sindacato storico dell’industria più “fordista” che si dimostra capace di unificare sotto la sua egida (“egemonia”, verrebbe da dire, ma di tipo davvero nuovo) i lavoratori del precariato post-moderno, raccontati come individualisti strutturalmente refrattari alla dimensione delle lotte solidali.
LA CAPACITÀ di difendere “interessi generali” proprio dando respiro strategico alla difesa dei lavoratori che direttamente si rappresenta è da sempre il “salto mortale” che a pochissime organizzazioni sindacali storicamente riesce. Ma la Fiom sabato è riuscita a fare perfino di più: ha dimostrato come possano essere unificate le lotte sociali, di cui il sindacato è istituzionalmente protagonista (o almeno dovrebbe), con le lotte per obiettivi di civile progresso, per diritti civili individuali e collettivi.
Aprendo con ciò una prospettiva davvero inedita, che non era riuscita neppure alla Cgil di Cofferati nel suo momento di massima capacità rappresentativa. Non si tratta solo di avere dato spazio al movimento per l’acqua pubblica e al pacifismo attivo di Emergency, ai movimenti contro le mafie e al dovere dell’antirazzismo nella sinistra ufficiale completamente edulcorato (per usare un eufemismo), alle lotte degli studenti e alle necessità della ricerca scientifica, ma di averlo fatto indicando una serie di obiettivi irrinunciabili per il movimento sindacale in quanto tale e che – radicate nella concretezza sindacale – costituiscono già una SFIDA POLITICA. Di questo infatti si tratta, quando il segretario del sindacato metalmeccanico decide di porre DIGNITÀ e LEGALITÀ come temi cruciali della rivendicazione operaia e li correda con la richiesta che meno tasse per i salari dei lavoratori dipendenti vengano compensati da “più tasse per i ricchi”.
ECCO PERCHÉ, nella manifestazione più inequivocabilmente OPERAIA da molti anni a questa parte, si è avuta la partecipazione massiccia di settori consistenti di piccola e media borghesia, di quel mondo “moderato” che tutti dicono di voler rappresentare, scambiando l’essere moderati con l’essere affascinati dalla nullità dei Montezemolo o dai politicantismi dei Casini (che i voti li prendeva grazie ai Cuffaro).
LA LEZIONE ella Fiom è dunque anche quella di uno straordinario realismo, che conferma come solo la strategia della intransigenza rispetto ai valori costituzionali sia capace di allargare le alleanze sociali. Fino ad ora avevamo una riprova per negativo: ammiccando alla destra i consensi dei “moderati” non si conquistavano affatto. Ora abbiamo, grazie alla Fiom, la cartina di tornasole in positivo: una politica bollata come “radicale” o addirittura “estremista” non isola affatto, anzi consente di trascinare con sé strati sociali che si stavano perdendo nell’apatia e nella rassegnazione. Per dirla nel modo più semplice, il gruppo dirigente della Fiom ha dimostrato cosa voglia dire praticare davvero una “vocazione maggioritaria”.
QUALSIASI politica sindacale ha necessità di una sua proiezione politica. Quella della manifestazione di sabato più che mai, visto che entra in rotta di collisione con la pretesa “oggettività” della globalizzazione e dunque esige una sovranità popolare che non sia succube della “libertà” di derubare la famosa “azienda Italia” di interi impianti industriali, trasferiti in qualche Serbia per avidità di iperprofitti aggiuntivi. Ma con ciò arriviamo all’ultima questione, che dovrà essere affrontata in un altro articolo.
Qui possiamo solo fissare i termini ineludibili dell’interrogativo: dai partiti del centrosinistra attualmente esistenti non può venire la risposta politico-elettorale non solo necessaria ma ormai improcrastinabile. E meno che mai potrà venire dal qualunquismo con cui Beppe Grillo sta ibernando nell’avvitamento del “vaffa” le energie giovanili degli elettori “cinque stelle”. Bisognerà che le forze più consapevoli della società civile, in primo luogo le testate giornalistiche della carta e del Web, riescano a inventare modalità fin qui inesplorate per risolvere l’equazione della democrazia.

IN FRANCIA




IL VALORE DEL LAVORO di Gad Lerner

L’ingiustizia plateale di cui è vittima il lavoro dipendente nel nostro paese–rimossa dal governo, trascurata dalla sinistra- si sta riprendendo da sola l’attenzione che le spetta. Solo un establishment miope, che ha lucrato per decenni sulla crescita delle disuguaglianze sociali senza peraltro compensarla con alcun vantaggio per l’economia, può liquidare la piazza romana gremita di lavoratori metalmeccanici come una manifestazione di estremismo politico. Da trent’anni una distribuzione squilibrata del reddito –che a differenza da altri paesi neppure la fiscalità e il welfare riescono a correggere- provoca un’imponente decurtazione della quota di ricchezza nazionale destinata alle buste paga. E come se questo non fosse un problema, ogni rara volta che viene ipotizzato un nuovo investimento nell’apparato industriale, esso viene preceduto dalla richiesta di concessioni normative a vantaggio dell’impresa. Quasi non provenissimo da decenni di moderazione sindacale e di concessioni rimaste senza contropartita alcuna per i lavoratori.
Può sembrare antico il simbolo della Federazione Impiegati Operai Metallurgici della Cgil fondata nel 1901, con la ruota dentata e il martello affiancati alla penna e al compasso- ma chi lo irrideva alla stregua di un anacronismo ormai disgiunto dal malcontento operaio, ha perso la sua scommessa.
Ancora una volta si è confermato poco saggio confidare sulla divisione sindacale per edificare nuove relazioni industriali. Sono caduti nel vuoto perfino gli avvertimenti del vecchio “duro” Cesare Romiti. Peggio ancora, il ministro Maroni ha additato irresponsabilmente come pericolo pubblico la manifestazione promossa da una grande organizzazione democratica che merita il rispetto di tutti, compreso chi non ne condivide la linea sindacale. Mentre il suo collega Sacconi, novello apprendista stregone, ha sproloquiato vaneggiando di un inesistente “clima da anni Settanta”.
La compostezza della protesta operaia ha fatto giustizia della linea di un governo che punta a stringere accordi con la Cisl e la Uil negando il ruolo decisivo della Cgil. Speriamo che l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, dopo aver dato in questa circostanza il cattivo esempio, riveda il proprio errore.
Toccherà ora ai sindacati di Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti ritessere un rapporto unitario con la nuova leader della Cgil, Susanna Camusso, contribuendo a sopire le tensioni che hanno dato luogo purtroppo a intimidazioni gravi nei loro confronti. Nessuno tra coloro che rifiutano calcoli politici di breve periodo, neanche la Confindustria, ha convenienza a fronteggiare la gestione della crisi economica con due piazze sindacali contrapposte. Tanto più dopo la giornata di ieri che ha evidenziato rapporti di forza diversi da quelli su cui forse anche Cisl e Uil facevano affidamento.
L’argomento secondo cui la Fiom Cgil mobilita grandi numeri solo perché intorno a lei si radunano forze radicali, precari della scuola e studenti estranei al mondo della fabbrica –il “nuovo antiberlusconismo” di cui parla Nichi Vendola- denota una visione politicista che elude la sostanza del problema: chiedere deroghe ai dipendenti in materia di malattia e diritto di sciopero, addirittura disdettare un contratto nazionale prefigurando ovunque normative svantaggiose, viene percepito come un’ingiustizia da chi molto ha già dato senza ricevere nulla in cambio.
Certo, dalla nuova posizione di forza acquisita, anche la Fiom Cgil dovrà avvertire la responsabilità di operare per una nuova unità sindacale, sedersi di nuovo ai tavoli delle trattative, vincendo la tentazione di un isolamento dorato.
Il Partito Democratico soffre più di chiunque altro questa divisione sindacale e paga il prezzo di non aver saputo delineare un suo impegno politico diretto nel mondo del lavoro, influenzando anche le dinamiche interne alle tre confederazioni. L’assenza di Bersani in piazza San Giovanni è dovuta al fatto che il segretario del Pd non può oggi permettersi di scegliere: difatti non aveva partecipato neppure alla manifestazione di Cisl e Uil, la settimana prima, a piazza del Popolo.
Magari fosse solo una questione diplomatica. La verità è che l’intera classe politica del centrosinistra, qualunque sia la sua matrice culturale, si è macchiata di un’inadempienza storica. Rescisso il legame esistenziale con gli operai, interrotto il circuito virtuoso per cui la rappresentanza delle classi subalterne si tramutava anche in leadership espresse direttamente dal mondo del lavoro, non ha allontanato solo il suo tenore di vita e la sua sensibilità dal popolo delle formiche. La classe dirigente del centrosinistra si è autoconvinta che un’adesione acritica alla cultura neo-liberale fosse il requisito indispensabile per candidarsi al governo del paese, supportata dal consenso di un establishment che nel frattempo si arricchiva spogliando risorse, anziché promuovere lo sviluppo.
Saranno necessari un cambio di mentalità, drastiche correzioni organizzative e di comportamenti, affinché l’attenzione al reddito e alla condizione operaia riacquisti il giusto peso nella politica del centrosinistra.
Non è un ritorno all’antico, ma un’adesione moderna alla vita quotidiana di chi fa fatica, il messaggio urgente che piazza San Giovanni rivolge a una politica distante.

LA SFIDA DI LANDINI: "CI BATTIAMO PER CAMBIARE LA CGIL" di Salvatore Cannavò


“Sei stato bravo, tranne per quella frase finale...”. L’elogio critico sussurrato dal numero uno della Cgil Guglielmo Epifani al segretario generale della Fiom, Maurizio Landini- al termine del comizio di piazza San Giovanni, culminato sabato scorso nella richiesta di sciopero generale - fotografa perfettamente il momento particolare del maggiore sindacato italiano.
Alla vigilia dell’insediamento al vertice di Susanna Camusso molti osservatori, colpiti dall’efficacia di Landini, e dal colpo a effetto con cui ha costretto la Cgil a dire sì allo sciopero generale, si chiedono se non siamo di fronte a un rovesciamento del quadro: la Fiom che esce dall’angolo dell’estremismo storicamente residuale e impone la linea ai fratelli maggiori.
Landini non aggira l’ostacolo: “Noi non ci muoviamo mai pensando solo ai metalmeccanici ma con un pensiero generale che per sua natura è confederale. La Cgilovviamente può cambiare, noi ci battiamo perché cambi anche perché abbiamo assolutamente bisogno di cambiare”. Con tutto ciò la scommessa del quarantanovenne saldatore di Reggio Emilia è chiara: deve imporre il suo linguaggio tutto sindacale a un’organizzazione abituata alla tradizione tutta politica di padri nobili come il predecessore Gianni Rinaldini (suo concittadino e “fratello maggiore”) e Giorgio Cremaschi.
CHI LO CONOSCE bene sa che il consenso che conta, per Landini, è quello della “sua” organizzazione, del sindacato di cui è figlio e debitore. Non solo perché nella Fiom c’è cresciuto, da quando si iscrisse all’età di 15 anni, quando ha cominciato a fare il saldatore. Ma anche perché il lavoro fin dall’adolescenza e le scuole superiori saltate lo rendono diverso da gran parte del ceto politico e sindacale. Un autodidatta che si identifica totalmente nella dimensione sindacale. “La storia del partito Fiom non esiste”, spiega convinto, “è una sciocchezza che nasconde il vero problema: come fa la sinistra a rappresentare il lavoro? Noi non ci sostituiamo alla politica”.
La forza del comizio di piazza San Giovanni, se lo si ripercorre fino in fondo, non sta in abili trovate retoriche ma nella solidità degli argomenti, nella linearità dell’analisi. E soprattutto nella certezza di stare sul palco a rappresentare un’organizzazione forte, articolata sul territorio, ancora ben organizzata a differenza di altre realtà sindacali in declino. In un mondo politico zeppo di leader senza popolo o sopra il popolo, Landini è “l’espressione coerente dell’organizzazione”. E quando ha detto nel discorso conclusivo: “Se siamo qui non è nemmeno merito della sola Fiom ma degli operai di Pomigliano che hanno avuto la forza di dire no”, più che la battuta retorica ha cercato di rivendicare l’autentico radicamento della sua organizzazione.
A DIFFERENZA dei predecessori Claudio Sabattini e Rinaldini, Landini è anche figlio di un sindacato che negli ultimi vent’anni ha conosciuto solo sconfitte e quasi mai vittorie, costretto a resistere e fare i conti con la spoliticizzazione che si è riversata anche nel sindacato. Con lui la Fiom deve fare i conti con la scomparsa della sinistra e con le disillusioni di un’epoca. Per questo fa presa sul popolo Fiom la sua voglia di ripartire proprio dal sindacato per ricostruire l’identità operaia e del lavoro, e per tentare la strada delle trasformazioni sociali. Per un’impresa del genere puoi affidarti o all’arte della politica-spettacolo oppure alla solidità dei tuoi rapporti interni. La strada scelta da Landini è la seconda. Lui scommette su questa organizzazione un po’ speciale che è la Fiom, un po’ squadra, un po’ famiglia, collettivo politico e umano tenuto insieme dalla figura un po’ mitizzata dell’operaio metalmeccanico.
Per questo sabato scorso si è fatto il giro dei due cortei in modo meticoloso, cercando di incontrare tutti, abbracciare tutti, e ricordare di essere uno di loro, uno della Fiom, un operaio che fa provvisoriamente il segretario generale. Per questo quando c’è un problema parte da Roma e va a farsi vedere dove serve: a Melfi, per i licenziamenti in Fiat, a Pomigliano, per la vertenza con Sergio Marchionne, a Torino, alla Fincantieri. Ieri era all’Università a parlare agli studenti, che lo hanno accolto come un eroe. Con i media invece è attento a non esagerare, e si concede la metà di quanto sarebbe richiesto. Non è per timidezza, ma per non farsi trascinare dalle bolle mediatiche, che alla lunga possono fare molto male. “Stiamo con i piedi per terra”, ripete ai suoi quando qualcuno lo riconosce per strada e gli grida “bravo Landini”.
E POI C’È L’ORGOGLIO operaio. Landini è stato sempre dalla Fiom, non ha fatto il giro delle organizzazioni, non ha diretto pezzi di Cgil, sempre e solo la Fiom. Ma alla Cgil ci tiene. Quando si è messo accanto a Epifani, sul palco di San Giovanni, di fronte ai fischi della piazza e alle richieste di sciopero generale, non l’ha fatto per una semplice cortesia, ma per ricordare a tutti che quello che parlava era comunque anche il suo segretario generale. E molti di quelli che hanno visto le immagini, in piazza o in video, si saranno chiesti se non si stia preparando un futuro in cui il più grande sindacato italiano possa cercare il suo leader proprio tra gli “estremisti” della Fiom.

lunedì 18 ottobre 2010

FIOM INFORMA

In mattinata si è svolto un incontro tra la Direzione Aziendale di Fiat Cnh Italia e la RSU dello stabilimento; ci è stato comunicato quanto segue:
- è confermata la CIGO per le giornate del 22 e del 29 di Ottobre;
- causa il perdurare di una situazione negativa di mercato sono state comunicate ulteriori 3 giornate di CIGO per le giornate dell’ 8-9-19 Novembre;
- l’incontro che avrebbe dovuto tenersi sulla situazione produttiva attuale e in merito ai primi mesi del prossimo anno dello stabilimento CNH di Jesi nella giornata di Giovedì 21 corrente mese, è stato posticipato alla prossima settimana in data da destinarsi;
- il numero di macchine previste per la fine dell’anno rimane comunque tra le 22900-23000 macchine come previsto a inizio 2010;
- sono stati inoltre confermati a tempo indeterminato i contratti in scadenza che riguardavano lavoratori invalidi con capacità lavorativa ridotta.



Jesi, 18 Ottobre 2010                        La RSU della FIOM CGIL

16 OTTOBRE

Una,Cento,Mille 16 Ottobre!

“Per venti anni ci hanno detto che bastava lasciar stare al mercato, ora abbiamo una finanza senza regole, il record di evasione fiscale, una precarietà senza precedenti e una redistribuzione della ricchezza a danno di chi lavora. Una società così è inaccettabile, bisogna ribellarsi per cambiarla”
-Maurizio Landini, Roma 16 Ottobre 2010-

La grande, democratica e pacifca massa di persone che Sabato 16 Ottobre ha invaso le strade di Roma partecipando alla Manifestazione indetta dalla Fiom-Cgil: “SI' AI DIRITTI, NO AI RICATTI, IL LAVORO E' UN BENE COMUNE” crediamo abbia detto alle parti sociali e al Paese tutto, alcune cose in estrema chiarezza:

1. le ragioni poste dalla FIOM al tavolo con FIAT nella vertenza di Pomigliano che ci hanno fatto dire No a chi pensa che si e' competitivi sul mercato solo negando i diritti, riducendo i salari, chiudendo gli stabilimenti o licenziando, a Chi in un mese guadagna quanto un operaio in una vita intera, sono tutt'altro che isolate e meno che mai non condivise. Altro che modello tedesco!
La dignità degli individui non può essere quotata in Borsa, questa è la grande lezione dei lavoratori di Pomigliano che hanno detto No al ricatto.

2. Le campagne denigratorie e allarmistiche portate avanti nei nostri confronti nei giorni precedenti l'evento, da certa politica e da Bonanni & Co., è stata completamente smentita da una manifestazione libera e pacifca.
Chi, alle questioni vere del lavoro e della fabbrica, preferisce la demonizzazione dell'avversario, farebbe bene farsi da parte o almeno tacere.

3. Nei luoghi di lavoro e nel Paese è ancora possibile un cambiamento, e questo cambiamento potrà avvenire solo rimettendo al centro la condizione di vita e lavoro di chi “suda” nelle fabbriche 8 ore al giorno, attraverso il ripristino di pratiche democratiche, quali il diritto alla contrattazione delle lavoratrici e dei lavoratori, la discussione assembleare e la consultazione con il voto, di contratti e accordi.

Il 16 Ottobre, una delle più grandi manifestazioni della storia del movimento operaio non può essere allora il termine, ma l'inizio di un cammino nuovo che ci vede tutti, nessuno escluso, impegnati nell'affermare quei valori e quella cultura che riporti il Diritto al Lavoro e il Contratto Nazionale alla loro centralità e al loro originario signifcato, quello espresso dall'articolo 1 della nostra Costituzione.
Alla costruzione di quella speranza, Sabato era presente anche una nutrita rappresentanza di lavoratori dello stabilimento Fiat Cnh di Jesi alla quale va un grazie e un abbraccio fraterno.

Jesi, 18 Ottobre 2010                                      la RSU della FIOM-CGIL

domenica 17 ottobre 2010


"ADESSO CONTATECI!"



Roma, 16 Ottobre
Piazza San Giovanni


INTERVENTO DEL SEGRETARIO GENERALE DELLA FIOM MAURIZIO LANDINI

venerdì 15 ottobre 2010

16 OTTOBRE

FIOM INFORMA IN FIAT/13

DOPO MELFI ANCHE A TORINO LA FIAT CONDANNATA PER ATTIVITA' ANTISINDACALE

Il Giudice Unico del Tribunale di Torino ha condannato la Fiat per comportamento antisindacale e, conseguentemente, ordinato l'immediato reintegro al posto di lavoro del delegato sindacale (esperto) della Fiom degli Enti Centrali di Mirafiori licenziato dall'Azienda per aver spedito, con i mezzi aziendali, una mail contenente una presa di posizione di lavoratori polacchi di Tychy sulla vertenza di Pomigliano.
Dopo la sentenza di Melfi con la condanna della Fiat per comportamento antisindacale e l'ordine di reintegro dei 3 operai licenziati (al quale la Sata si oppone e non dà piena attivazione), questa nuova sentenza a Torino rende evidente che la Magistratura riconosce che la Fiat ha messo in atto una campagna antisindacale per colpire e discriminare la Fiom-Cgil che, anche nel Gruppo, è l'organizzazione più rappresentativa fra i lavoratori con il maggior numero di iscritti e di voti nella Rsu.
I dirigenti della Fiat invece di spendere energie e soldi nell'inutile tentativo di piegare i lavoratori e la Fiom dovrebbero impegnarsi per innovare i prodotti e aumentare le vendite visti i risultati deludenti che stanno ottenendo.
La Fiom rinnova l'invito alla Fim e alla Uilm per tenere in ogni realtà del Gruppo assemblee unitarie per coinvolgere le lavoratrici e i lavoratori e decidere assieme a loro come affrontare una trattativa con la Fiat sui piani industriali, gli investimenti, lo sviluppo e la difesa dei diritti.

Roma, 14 ottobre 2010
FIOM NAZIONALE

giovedì 14 ottobre 2010

LA MIA VITA SEMPRE IN PIEDI


Una giornata da operaio Fiat: 8,95 euro l'ora, sveglia alle 4,30, la stessa mansione per otto ore
di Salvatore Cannavò  da "Il Fatto quotidiano" (...) 
Uno guarda la tv, sente le notizie sulle industrie, le fabbriche, gli operai e pensa che questi non esistano più. Sullo schermo ci sono solo immagini di robot tecnologici che spostano pezzi, bullonano auto, le verniciano e a volte le guidano anche. Le immagini degli operai non ci sono mai. (...)
Per vederli devono fare uno sciopero o una manifestazione, bloccare un'autostrada. Oppure devi metterti tu davanti ai cancelli, magari proprio quelli di Mirafiori, a Torino, e vederli sciamare veloci per tornarsene a casa. A malapena ti danno retta se vuoi parlarci, dopo otto ore lì dentro è comprensibile. Ma com'è lì dentro? Che significa oggi essere un operaio? Davvero, siamo lontani dagli anni 70 e 80, dalla figura dell'”operaio massa” che tanta storia ha fatto in questo paese? A sentire il racconto di Pasquale, operaio alle Carrozzerie di Mirafiori dal 1988 – «prima ero alle Meccaniche», precisa – sembra quasi di rileggere le formidabili pagine del “Vogliamo tutto” di Nanni Balestrini. Certo non c'è quella rabbia fisica, non trasuda la rivolta ma la fabbrica è ancora tutta addosso alle spalle di chi ci lavora, un ambiente che induce alla «paranoia», straniante e straniera allo stesso tempo. Anche se ci lavori da oltre venti anni. Venti anni di giornate uguali e faticose.

Ore 4,30, la sveglia

«Quando ho il primo turno, che inizia alle sei del mattino, mi alzo alle 4,30. Non è facile ma dopo un po' ci si abitua anche se rimango in silenzio almeno fino alle 8 di mattina. In fabbrica ci vado in tram, con i servizi speciali che l'Att torinese ha predisposto per gli operai Fiat. Li possono prendere tutti ma fanno dei tragitti speciali. In media ci vogliono solo 20 minuti per arrivare ai cancelli ma bisogna arrivare alla fermata in tempo, quindi alle 5,10 sono già lì in modo da stare alle 5,45 davanti ai cancelli».

Ore 5,45, ai cancelli

«Lì avviene la prima timbratura, quella ai tornelli. Una volta infilato il badge nella fessura la Fiat sa che sei dentro, sei nel perimetro della fabbrica. Non è ancora l'inizio dell'orario di lavoro, c'è da fare ancora una seconda timbratura, che noi chiamiamo bollatura, subito dopo i tornelli. Da lì si passa agli spogliatoi, ci vogliono cinque minuti per arrivarci e in cinque minuti ci si cambia, ci si mette la tuta dell'azienda e si arriva alla postazione di lavoro. Io ci arrivo a pelo, alle 6 in punto si comincia a lavorare. Se sgarri di un solo minuto, l'azienda ti addebita un quarto d'ora sulla busta paga; dopo il primo quarto d'ora l'addebito sale a mezz'ora dopo la quale i ritardi vengono conteggiati nei minuti esatti». La paga oraria di Pasquale – la prende e la controlla - è di 8,95 euro l'ora. Un ritardo di un minuto, facciamo i calcoli, gli costa circa due euro netti. Per mezz'ora se ne vanno quattro euro. 

Ore 6, inizio turno

Alle sei del mattino, quindi, il nostro interlocutore si piazza alla sua postazione di lavoro. Che è quella del giorno prima. L'azienda può cambiare la postazione o la squadra a cui si è assegnati, entro un'ora dall'avvio della produzione ma o ci sono emergenze oppure generalmente si procede come d'abitudine. Pasquale lavora a una postazione «di sequenza», cioè prende i pezzi da montare sulle auto, o su parti di esse, che scorrono lungo la linea di montaggio, e li distribuisce a seconda dei numeri che hanno impressi sopra. «Prima stavo anch'io sulla linea e ho montato per anni i pezzi direttamente sull'auto, poi dopo un'embolia polmonare e altri malanni vari sono stato messo di fianco a sequenziare i pezzi. Il vantaggio è di non essere direttamente legato al ritmo costante della linea che ti impone tempi più rigorosi».
«Ogni numero corrisponde a una posizione sull'auto. I pezzi sono contenuti in vari cassoni – dodici in tutto e ogni cassone è lungo circa tre metri per un metro e mezzo di larghezza – e io li smisto in cassoni più piccoli, più maneggevoli sulla linea». Sulla sua linea passano le portiere: dalla scocca dell'auto, nuda e verniciata, che scorre su una delle tre linee di cui sono composte le Carrozzerie, vengono smontate le portiere che scorrono su una linea separata e lì vengono completate dei pezzi mancanti: si aggiungeranno maniglie, cavi elettrici, insonorizzazioni e così via. I pezzi a volte pesano 6 o 7 chili l'uno: la mansione è sempre la stessa non ha varianti, non prevede imprevisti né autonomia. Si tratta di raccogliere pezzi, distribuirli, raccoglierli e smistarli. Tutto il giorno, per otto ore, anzi un po' meno perché ci sono le pause che vedremo fra poco. «Quando stavo direttamente sulla linea ricordo che montavo delle boccole – supporti cilindrici per albero motore o cambio -, tutto il giorno a montarle senza sosta. Era un lavoro frenetico e ossessivo, paranoico direi. Perché la cosa assurda che ti capita con la linea di montaggio è che più il lavoro è facile più dai fuori di testa, perché la ripetizione è micidiale. Se è più difficile, magari puoi utilizzare un po' di malizia per cercare di rallentare il ritmo e provare un po' a pensare». Sembra di vedere Charlie Chaplin, in Tempi moderni, ma non è uno scherzo. Il fatto è che, parlando con Pasquale, capiamo che la fisionomia dell”operaio massa” è tutt'altro che superata in fabbrica. «L'azienda non fa che parcellizzare il lavoro, semplificarlo al massimo in modo da poterlo far fare a tutti. Abbiamo verificato, parlando con dei compagni di lavoro della Sevel di Atessa, che in quella fabbrica succede che un nuovo assunto viene lasciato da solo dopo solo un'ora. Un'ora, capisci!, per imparare una mansione che dovrà svolgere a tempo indeterminato: ogni giorno un solo pezzo, sempre allo stesso posto, in continuazione; una paranoia». «Quando lavoravo alle Meccaniche – aggiunge Pasquale – usavo di più la testa, il lavoro era duro e ripetitivo ma per sistemare un pistone ci si ragiona un po' di più».

Ore 8, le prime parole

In postazione si lavora con qualche operaio di fianco. Si può parlare ma «prima delle 8 del mattino nessuno apre bocca, siamo ancora assonnati» anche se spesso «se fai una domanda la risposta arriva dopo qualche minuto, perché prima c'è da finire una portiera o un vetro da montare. Però chi si trova vicino uno con cui non va d'accordo è davvero sfortunato, mica si può spostre da un'altra parte. Quello che ti sta di fronte è il tuo unico interlocutore, o te lo fai piacere o stai zitto».
Pasquale lavora in una squadra come tutti gli operai di Mirafiori. Ogni squadra conta circa 30-35 operai ma non è il capo-squadra l'interlocutore di riferimento. «No, è il “team leader”, uno ogni dieci operai circa». E' lui che sorveglia la produzione, interviene in caso di pezzi mancanti, sostituisce eventuali assenze per malattia, raccoglie le richieste o i bisogni dei dipendenti e riferisce al capo-squadra. Un team-leader è un'operaio di quarto livello, prende un po' di euro in più e ovviamente è particolarmente affidabile: «Io non ne ho mai visto uno scioperare».
«Sono loro che quando serve assegnano straordinari serali per mansioni che non rientrano negli straordinari comandati al sabato, quelli cioè previsti dal contratto. Passano per le linee e si rivolgono agli operai più fidati, ai “loro”, per offrire un paio d'ore per ripulire un piazzale, sistemare del lavoro arretrato, mai per aumentare la produzione, quello si fa solo al sabato. Ovviamente due ore fanno spesso comodo, si guadagna un po' di più anche se alle dieci di sera – il secondo turno comincia alle 14 e termina, appunto, alle 22 – è faticoso». 

Tre pause di 10 e 15 minuti

La fatica si sente. «Lavoriamo in piedi tutto il tempo. Io a fine turno ho davvero bisogno di togliermi le scarpe, riposarmi, mi fanno male i piedi e le gambe, la schiena è bloccata. Devo dire che chi soffre di più sono le donne, le vedo spesso lamentarsi per il mal di gambe tanto che ne ho viste molte portarsi una cassettina di legno accanto alla postazione su cui sedersi non appena scatta una pausa o anche durante l'ora di mensa». A Pomigliano la Fiat porterà, in base all'accordo sottoscritto, la pausa mensa a fine turno e ridurrà di dieci minuti le pause. Come funziona ora? «Le pause sono tre, una ogni due ore, per un totale di quaranta minuti: 15+15+10». Ma che succede durante la pausa? «Intanto si va in bagno, poi chi fuma esce fuori a fumare – nello stabilimento è vietato, chissà come farà Marchionne... - ci si prende un caffè. Per chi svolge attività sindacale è l'unico momento per parlare con i compagni di lavoro ma spesso è impossibile perché, appunto, ognuno ha qualcosa da fare. E poi dieci o quindici minuti durano davvero poco». 

Ore 11,45, la mensa

Con la pausa mensa forse va anche peggio. «L'interruzione è di mezz'ora, dalle 11,45 alle 12,15 e dalle 18,45 alle 19,15 per il secondo turno. Ma dobbiamo mangiare in non più di quindici minuti. Ci vogliono infatti tra gli 8 e i 10 minuti per raggiungere la mensa, spesso c'è da fare la coda e quindi non c'è molto tempo». L'azienda trattiene dalla busta paga 1,19 euro per ogni pasto. Eppure, spiega Pasquale, «ci sono davvero tanti operai, soprattutto donne come dicevo prima, che preferiscono portarsi da casa un panino o qualcosa da mangiarsi lì accanto alla propria postazione, così da recuperare un po' di tempo e far riposare le gambe». 
In fabbrica fa freddo d'inverno e caldo d'estate, non è un ufficio, non c'è l'aria condizionata. «I capannoni sono alti anche trenta metri, ci sono spifferi, sono stabilimenti vecchi ma soprattutto la fabbrica è in parte deserta e quindi i riscaldamenti vengono accesi solo parzialmente. E quindi fa freddo. Per mettere un po' di stufette in giro per i reparti o le pale di ventilazione non sai quante ore di sciopero abbiamo dovuto fare». Il momento più difficile della giornata è dopo pranzo «perché senti di più la stanchezza. Al mattino sei più riposato ma hai sonno, dopo ti svegli ma sei stanco». Mentre scriviamo ci rendiamo conto che nel farci raccontare una giornata di lavoro abbiamo avuto un resoconto limitato a poche decine di minuti: l'avvio, le funzioni, le pause, la mensa. L'andata e il ritorno dal lavoro. Per il resto non c'è più nulla da raccontare, solo una costante ripetizione di movimenti che non cambiano mai. Eppure a Pomigliano si vuole portare la mensa a fine turno e ridurre le pause da quaranta a trenta minuti, lavorano così per sette ore e mezza con solo due pause da quindici minuti o tre da dieci minuti l'una.

Ore 12,15, si riprende

Ma non c'erano i robot che avevano sostituito gli operai? «I robot ci sono ma solo alla lastratura e alla verniciatura. In realtà sono pochi mentre le case automobilistiche concorrenti ne hanno molti di più. Gli operai non sono del tutto contrari ai robot perché ci sono lavori, come la lastratura – dove praticamente si “incolla” il pianale dell'auto alle portiere e al tetto – che erano davvero micidiali. O la verniciatura che ci portava via i polmoni. Però, nonostante i robot gli operai ci sono ancora e sono loro a far andare avanti la produzione, da qui non si scappa». Pagata quanto?
Alla Fiat si sopravvive con poco. Pasquale tira fuori dalla tasca la busta paga, quella dell'ultimo mese. Il minimo contrattuale lordo, per un operaio di terzo livello, è di 1.395,44 euro a cui si sommano, dopo 22 anni di fabbrica, 125 euro di scatti di anzianità e 27 euro di premio produzione. In totale fanno 1548 euro lordi che diventano 1.239 al netto delle molteplici trattenute. «Sempre che non ci sia stata cassa integrazione oppure qualche ora di sciopero». Se si hanno dei figli, l'affitto e le bollette i conti sono facili da farsi.

Ore 14, fine turno

La nostra chiacchierata finisce qui. La giornata è praticamente conclusa e fuori dalla fabbrica ne resta solo il rumore, costante, avvolgente, fatto di ferraglia, di colpi sordi, di martelli pneumatici e di trapani elettrici. O del clangore dei pezzi metallici. Un rumore confuso che lascia un ronzio nella testa. E poi c'è il silenzio, fatto dall'esterno della fabbrica pochi minuti dopo l'uscita, lo sciame operaio si disperde subito, veloce come la rassegnazione che si è impadronita del mondo del lavoro.
Resta però una sensazione, quella della dignità. Pasquale, e molti come lui, minimizzano la fatica, lo stess, l'alienazione, «la paranoia» come la chiama lui. La sente ma non se ne lamenta, non si atteggia a vittima. Sarà perché è iscritto al sindacato, perché crede nella lotta comune e in qualche possibilità di riscatto. Sarà perché con qualcosa bisogna pure difendersi e resistere. Gli operai metalmeccanici in Italia sono quasi due milioni e di questi 363 mila sono iscritti alla Fiom, primo sindacato di categoria. Sarà mica la dignità il problema?

mercoledì 13 ottobre 2010

Conversazione di un lavoratore FIAT di Pomigliano

Viaggio a Pomigliano. Vita di fabbrica: com’è e come la vogliono cambiare



di Claudia Pratelli  11 Ottobre 2010
Portaci a Pomigliano. Cosa succedeva prima dell’Aprile 2010 nella fabbrica?
Per capire Pomigliano parto da me: ho 35 anni, da 10 lavoro in questa fabbrica e mi ritengo uno degli anziani. Sembra paradossale, eppure non lo è. Negli ultimi 4 anni la fiat tra mobilità e cassa integrazione ha mandato via la memoria storica della fabbrica fatta di molte persone, dai 50 anni in su, che hanno costituito la spina dorsale del lavoro e della coscienza dei lavoratori.
Mentre accadeva non ci rendevamo conto che l’allontanamento di quelle persone stava dentro una Campagna della Fiat rivolta ai lavoratori più giovani per annullare il conflitto.
Creare una cesura con la memoria storica del movimento operaio di Pomigliano era il primo strappo di una lunga serie. Presto è arrivato il secondo. Nel 2008 Marchionne presentava un piano consistente in un percorso che si chiamava di “Rieducazione”, non è uno scherzo si chiamava davvero così… Nelle premesse doveva essere un piano per insegnarci le regole per produrre le macchine e le regole del contratto nazionale, un corso di formazione e aggiornamento per il lavoro, in cui, però, si doveva anche promuovere una conoscenza più dettagliata delle regole del contratto e delle regole aziendali, dato che in fabbrica, secondo i vertici Fiat, c’era una pessima disciplina e non venivano rispettate le regole. Incredibile, secondo me, perché le regole e i doveri si conoscono perfettamente, casomai quello di cui i lavoratori sanno davvero poco sono i diritti di cui dispongono.
In realtà questo piano tutto era tranne che aggiornamento e lo si è visto fin dal principio. Il 3 gennaio 2008, giorno in cui doveva cominciare il piano di “Rieducazione” ci siamo ritrovati tantissimi vigilanti in fabbrica, i quali, ogni volta che esprimevamo (noi lavoratori ndr) un giudizio sulle regole o sull’azienda, prendevano nota di chi-diceva-cosa. Ci siamo sentiti in un regime di polizia. Per questo il secondo giorno del corso di formazione c’è stato un grande sciopero spontaneo contro la presenza di queste ambigue figure dei vigilanti, a cui l’azienda ha risposto con una “sospensione cautelare” (che è sempre stato sinonimo di licenziamento) per 7 persone di cui 4 sindacalisti –me compreso-, con la motivazione che avevamo disturbato il corso di formazione. Dopo 10 giorni i vertici nazionali, prima volta nella storia di Pomigliano, hanno ritirato i provvedimenti nei confronti di questi 7. Scongiurati i licenziamenti, però, è rimasta la paura.
Venendo alle vicende recenti. Fiat dixit che il piano presentato ai sindacati serviva per traghettare la fabbrica nell’era dopo Cristo. Un piano orientato all’efficienza e necessario per sostenere la competizione internazionale. Qual è il tuo racconto?
E’ un racconto molto diverso. La Fiat ha giocato sul clima di paura costruito negli anni passati di cui parlavo prima, ulteriormente esacerbato dalla crisi economica che ha colpito duramente il nostro stabilimento. Pomigliano, è bene saperlo, ha pagato cara la crisi perché produceva modelli vecchi e con poco mercato come l’alfa 147, quasi estinta, l’alfa 159 e l’alfa GT, macchine di alta gamma che non hanno un mercato di massa. Tra l’altro lo stabilimento non ha usufruito degli incentivi statali perché quelli erano rivolti ai modelli a basso impatto ambientale. Su questo terreno nasce la trattativa. Una trattativa che fin dal primo incontro è sembrata più un’imposizione che un luogo dove si poteva contrattare.
Nel merito del piano proposto il problema è complessivo: là dentro c’è una diminuzione dei diritti fondamentali.
Di fatto, si vieta il diritto allo sciopero, perché si prevede che non si possa fare sciopero sulle materie oggetto dell’accordo. Si tratta, però, di un accordo a 360°, che parla di tutto: dalla malattia alle mense, dallo straordinario allo svolgimento della prestazione e altro ancora… Sostanzialmente i lavoratori sono impossibilitati a protestare su tutto. La seconda cosa riguarda la malattia. L’azienda scrive nell’accordo che non copre le giornate di malattia in concomitanza con eventi di conflittualità. Non si tratta solo di un’azione ingiusta, ma anche di un fatto tutto ideologico. E ti spiego perché ideologico: lo sai come funziona quando ci sono gli scioperi? Di solito i capi vanno dai lavoratori a chiedere a chi fa sciopero di mettersi in malattia con la chiara intenzione di diminuire e nascondere l’adesione allo sciopero…
Sui tempi, poi, hanno calcato la mano. Prima di tutto i turni. Si introduce l’odiosa normativa dei 18 turni di lavoro con riposo solo la domenica e giornata a scorrimento. In realtà l’accordo sui 18 turni già è presente nel contratto nazionale quindi su questo c’era anche una disponibilità… anche se sappiamo bene che l’unico luogo in cui è stata applicata è Melfi e sappiamo com’è andata a finire… (21 giorni di sciopero ecc.)
In più è prevista una riduzione delle pause. Ora abbiamo due pause di 20 minuti nella giornata e le vogliono ridurre ulteriormente. Pomigliano sarebbe l’unico stabilimento ad avere una restrizione delle pause di questo livello.
E ancora lo straordinario obbligatorio. La Fiat chiede di derogare dal contratto e aumentare le ore di straordinario da 40 a 120. Ma io mi domando: quando le dobbiamo fare queste ore di straordinario? La Fiat risponde che le dobbiamo fare durante le pause mensa o la domenica. Ci rendiamo conto?! E’ impossibile: stare alla catena di montaggio è faticoso e il ciclo continuo lo è ancora di più.
Ma non finisce qui perché a tutto questo si aggiunge la nuova metrica di lavoro che Fiat vuole introdurre a Pomigliano: si chiama Ergo-uas e si tratta di una metrica di lavoro, ovvero una pianificazione dei tempi tecnici per eseguire le operazioni, non certificata (!) che vuole aumentare l’intensità dei ritmi di lavoro del 25%. E’ una metrica applicata in via sperimentale a Mirafiori in alcune linee campione. Lì però viene valutata insieme alle Asl competenti di Torino, le quali non mi risulta ne abbiano dato una valutazione particolarmente positiva…
Proviamo a descrivere le ricadute di tutto questo sulla quotidianità degli operai di Pomigliano. Con i 18 turni, la giornata a scorrimento, la diminuzione delle pause e lo straordinario, come si svolgerà la vostra giornata?
Non è un difficile esercizio di fantasia. Considera che il lavoro in fabbrica si svolge su tre turni di otto ore ciascuno: dalle 22.00 alle 6.00; dalle 6.00 alle 14.00; dalle 14.00 alle 22.00. La fabbrica è sempre attiva: dalla notte della domenica alla sera del sabato. Unico giorno di riposo la domenica. Un operaio che per una settimana lavora nel turno di notte, la settimana successiva passerà al turno diurno e quella dopo ancora al turno serale. Questo è il ciclo continuo con giornata a scorrimento: una modalità a cui non ci si abitua mai perché cambia continuamente l’orario di lavoro, stravolgendo i ritmi biologici.
Con l’abolizione dei due giorni consecutivi di riposo, la domenica, unico giorno di riposo che rimane, rischia di essere un’altra giornata di fatica perché è quella in cui bisogna reimpostare il ritmo sonno/veglia in funzione della settimana successiva…
Immagina di lavorare per sei giorni dalle 22.00 alle 6.00. Finisci la settimana alle 6.00 di sabato e che fai: dormi? No, perché dal lunedì dopo devi fare il turno di giorno (dalle 6.00 alle 14.00) e quindi devi sforzarti di resistere per andare a dormire la sera alle 10.00 e riprendere un ritmo quasi normale. Difficile uscire il sabato sera, sei troppo stanco. Un po’ troppo stanco lo sei anche per giocare con i tuoi figli. Per stare con tua moglie. Per andare a fare una gita fuori città.
Altro capitolo è quello della mensa che viene spostata a fine turno. Immagina un lavoratore che inizia il turno alle 6.00. Per arrivare a lavoro probabilmente (Pomigliano impiega lavoratori da un vasto interland ndr) questa persona si alzerà alle 4.30 del mattino. Sai a che ora riuscirà a mangiare? Poco meno di 10 ore dopo quando si è svegliato…Passare la mensa a fine turno vuol dire cancellarla. Tutto questo immaginatelo con una sola pausa di venti minuti e a ritmi superiori del 25% a quelli attuali che, credimi, già sono intensi.
Parliamo del referendum: la Fiom che da sempre lo chiede a gran voce perché ne ha contestato lo svolgimento a Pomigliano?
Perché i diritti indisponibili non sono contrattabili né col sindacato, né con nessun altro.
E poi perché è stato un falso atto di democrazia: un po’ come andare a votare sotto gli occhi di un capopartito armato. In un referendum democratico la scelta è tra due opzioni. In questo caso non esisteva l’opzione 2 perché non c’era la prospettiva di riaprire, eventualmente, la trattativa. Anzi. Sostanzialmente si sapeva che un no avrebbe comportato i licenziamenti.
Nonostante questo l’esito del referendum non è andato come Marchionne sperava.
E nonostante l’Azienda (e Cisl e Uil) si fossero molto impegnati per promuovere la partecipazione al referendum e ottenere un plebiscito di sì. Il Direttore dello stabilimento ha addirittura mandato un dvd ai lavoratori dove lui (il direttore, ndr) parla ai lavoratori in piedi davanti allo stabilimento spiegando che la Fiat è l’unica scelta possibile per il nostro futuro…
Vi sentite in competizione con gli operai polacchi?
Proprio no. Anzi. Abbiamo contatti con operai polacchi che hanno il coraggio di dire che non si sta affatto bene nel loro paese. Purtroppo non sono tantissimi, c’è molta paura e una coscienza sindacale non fortissima, ma sappiamo da che storia viene quel popolo. Da parte nostra c’è una grande solidarietà con loro, ma soprattutto c’è la consapevolezza che dobbiamo unirci perché è l’unica possibilità per renderci davvero forti. Vanno unificate le lotte, serve a loro e serve a noi. Se non uniamo i movimenti dei lavoratori di tutto il mondo per avere regole e diritti comuni rischiamo di farci concorrenza tra di noi.

(Rappresentante RSU Fiat di Pomigliano)

lunedì 11 ottobre 2010

BONANNI, IL MIGLIOR AMICO DI MARCHIONNE

Di Antonio Rispoli
Sinceramente, ho faticato a credere che quello che parlava fosse un sindacalista. Sentire il segretario generale della Cisl Angelo Bonanni dire: "Dieci, cento, mille Pomigliano!", mi ha fatto scendere il latte alle ginocchia. Non è da adesso che i leader della Cisl e della Uil hanno mostrato di apprezzare molto l'appiattimento sulle posizioni filogovernative e filo confindustriali. Basta ricordare l'entusiasmo con cui aderirono all'approvazione della legge 30, che è stato un trionfo della precarizzazione del mercato del lavoro; al "Progetto Italia", del 2003, in cui i sindacati appoggiarono tantissime promesse del secondo governo Berlusconi, senza che nessuna di esse sia stata poi attuata; il sempre minore numero di scioperi a cui la Cisl ha aderito con i governi Berlusconi, fino all'intervento di poche settimane fa, in cui raccomandava di fare gli scioperi solo di sabato, per non danneggiare la produzione delle imprese.
Ma dire "Evviva Pomigliano" è un assurdo, per un sindacalista, che dovrebbe stare dalla parte dei lavoratori. Perchè a Pomigliano sono stati scippati i diritti ai lavoratori. Per esempio sono state ridotte le pause caffè (che sono anche pause bagno, perchè non sempre puoi stare 8 ore a tenertela); la pausa pranzo è stata spostata a fine turno, ma a fine turno è stato spostato anche l'obbligo di recuperare i ritardi di produzione dovuti al ritardo delle consegne di materiale da parte delle fabbriche dell'indotto. Poichè la Fiat a Pomigliano ha oltre 100 aziende che si occupano di costruire i vari pezzi dell'autovettura, i ritardi sono praticamente all'ordine del giorno. Quindi quasi tutti i giorni ai lavoratori verrà tolta la pausa pranzo perchè bisognerà recuperare qualche ritardo che inevitabilmente capita durante la giornata. Ancora peggio: nell'accordo sta scritto esplicitamente che nel caso di assenza ingiustificata dal lavoro, compreso nel caso di sciopero, l'azienda è autorizzata a prendere provvedimenti disciplinari. Cioè si viola un diritto costituzionale, quello di sciopero.
Sono queste le norme che Bonanni vuole applicare? La risposta della Cisl a questo punto è: "Noi dobbiamo fare di tutto per mantenere le imprese in Italia, perchè se vanno all'estero o chiudono poi non c'è lavoro". In teoria si può essere d'accordo: meglio guadagnare poco che non guadagnare affatto. Ma qui arriviamo al punto fondamentale: a che serve il sindacato se non a costringere le società a rispettare i diritti dei lavoratori? Se i sindacati, anzichè calare le brache in questa maniera così vergognosa avessero lanciato una controffensiva, per esempio scioperando tutti insieme in tutte le fabbriche e gli uffici della Fiat, per lunghi periodi, bloccando la produzione delle autovetture, avrebbero potuto ottenere qualcosa. Anche se in questo caso avrebbero dovuto avere l'appoggio del governo che, alla minaccia di Marchionne di andare all'estero, avrebbe dovuto dire: "Molto bene. Prendi e vattene. Ma lasci qui tutte le fabbriche, come rimborso per le vagonate di miliardi di euro che la Fiat ha ricevuto dal dopoguerra ad oggi". Questo fa un governo serio... cosa che non riguarda l'Italia.
Allora, visto che Bonanni non è in grado di guidare il sindacato nel fare il proprio dovere, va cacciato. Se non lo è, è perchè anche il resto del sindacato ha deciso di andare contro gli interessi dei lavoratori. Evidentemente per loro è più importante fare i simpatici col Presidente del Consiglio o con i grossi vertici industriali che difendere gli interessi dei lavoratori. Poi è normale che questo faccia arrabbiare le persone; e quando c'è gente arrabbiata è inevitabile trovare quel gruppo di esaltati che lanciano un fumogeno contro il segretario Cisl o le uova contro la sede Cisl. E' questo il prezzo (sbagliato, perchè la violenza non va mai usata e non paga mai) che si rischia di pagare, quando hai l'obiettivo di essere il miglior amico di Marchionne. Che poi è una fatica inutile: come tutti i migliori amici, il suo destino è di essere preso a calci quando l'ad della Fiat è incavolato.