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lunedì 31 gennaio 2011

Tute blu, orari e contratti a confronto Fiat e Chrysler "sognano" la Germania

Tra le differenze che caratterizzano le tre aziende, un diverso concetto di diritto di sciopero.Tutti i dati della ricerca realizzata dall´associazione "Lavoro e welfare" 

TORINO - Hans, John e Francesco indossano la tuta blu da trent´anni. Producono automobili a Wolfsburg, quartier generale della Volkswagen, Detroit, dove ha sede la Chrysler, e a Mirafiori, cuore del sistema Fiat. Hanno contratti molto diversi tra loro. Francesco teme di fare la fine di John e spera di vivere un giorno come Hans. Hans si difende dall´incubo di finire come gli altri due. John considera Francesco un privilegiato e spera che perda un po´ di salario per poter trasferire in America il denaro sufficiente a pagargli il dentista nei prossimi anni. Il sugo della storiella è che Hans, John e Francesco non si incontrano mai e per questo si fanno la guerra.
Il confronto tra i contratti di Fiat, Chrysler e Volkswagen è stato promosso dall´associazione «Lavoro e Welfare» presieduta dall´ex ministro del lavoro, Cesare Damiano. I risultati della ricerca vengono presentati oggi pomeriggio alle 18 nei locali della sede nazionale del Pd a Roma. Lo storico Giuseppe Berta ha analizzato il contratto di Detroit, Piero Pessa ha studiato l´accordo di Mirafiori mentre Francescantonio Garippo, del consiglio di fabbrica di Wolfsburg, illustra il contratto Volkswagen.
John ha perso molto con la crisi Chrysler di due anni fa. Ciononostante John fa più pause di Francesco: in Chrysler ci si ferma 5 minuti ogni ora lavorata. Questo significa che John si ferma 40 minuti perché lavora 8 ore. Francesco, che ne lavora solo 7,30 (perché ha la mezz´ora di mensa retribuita) si ferma 30 minuti mentre se fosse a Detroit avrebbe diritto a 37,5 minuti. Hans si ferma più di tutti: perché ai 35 minuti di pausa pagata ne aggiunge 20 di pausa non retribuita. Se vogliamo aggiungere ai 30 minuti di pausa di Francesco la mezz´ora della mensa, l´italiano si ferma un´ora, il tedesco un´ora e 5 minuti e il povero John è ultimo con 40 minuti. Dagli studi comparativi dei ricercatori è chiaro che per Francesco l´America è in Germania. Dove il sindacato è forte. La settimana lavorativa di Hans dipende dalla produzione: può essere di 25 ore o di 33 (per chi è stato assunto dopo il 2005, di 35). Il salario è sempre uguale: «Questo - spiega Garippo - è il motivo per cui le aziende non riducono la produzione in Germania trasferendola altrove. Perché anche se la produzione scende i salari vanno pagati lo stesso». Ogni ora di straordinario viene contrattata con il consiglio di fabbrica. A Mirafiori invece la settimana lavorativa è di 40 ore ma l´azienda può ordinare 120 ore annue di straordinario senza trattative.
Un altro punto che divide le tre tute blu è il diritto di sciopero. John non ce l´ha: fino al 2015 non se ne parla. Francesco può scioperare solo su materie non regolate dal contratto di lavoro (che è molto dettagliato). Hans lo sciopero lo può fare se il 75 per cento degli iscritti al suo sindacato lo approva. A Wolfsburg la Ig metall rappresenta il 96 per cento dei dipendenti. Ma spesso rappresenta solo la metà dei lavoratori: così una minoranza può votare lo sciopero. Per 52 giorni dall´inizio di una vertenza non si potrebbe scioperare. Ma le aziende tollerano fermate spontanee.
Ovviamente anche sul salario le differenze sono enormi. John porta a casa 1.300 euro ma deve pagarsi la pensione e l´assistenza sanitaria. Francesco ha una busta paga netta di 1.200 euro ma sta meglio di John perché ha la mutua e la pensione. Hans guarda tutti dall´alto: con una settimana di notte e un figlio porta a casa 3.700 euro lordi, 2.500 netti. Un ultimo particolare: l´azienda di Hans contende a Toyota e Gm la leadership mondiale.

sabato 29 gennaio 2011

Alle 3 del mattino, 250 persone si ritrovano davanti alla fabbrica che produce trattori per la Fiat, in solidarietà con lo sciopero Fiom. Tra letture di Di Ruscio, musica da un camioncino e corpo a corpo con i «crumiri» che vogliono entrare, il racconto di una notte ai cancelli. di Angelo Ferracuti dal Manifesto

JESI. Me ne rendo conto solo adesso che sto per arrivare a Jesi nella fabbrica della Fiat-Cnh dove la Fiom delle Marche ha organizzato la "Notte rossa": sono ormai dieci anni che non scrivo più fiction ma soprattutto "racconti dal vero", e molti di lavoro nei posti più diversi dell'Italia. Gli operai morti di amianto nei cantieri navali di Monfalcone, quelli del disastro della Mecnavi di Ravenna, i cinesi di Prato, i pachistani calzaturieri di Civitanova, i mobbizzati alla Micron di Avezzano, un musicista aggredito dagli orchestrali all'Arena di Verona, i raccoglitori di pomodori del foggiano o di Castel Volturno, i minatori pugliesi che mi hanno raccontato la tragedia di Marcinelle, ma anche i postini e i maestri dell'Irpinia orientale, gli attori precari, i camionisti, le materassaie morte a Montesano della Marcellana, persino la storia esemplare di Guerriero Rossi, un sindacalista della Tod's al quale il padrone Diego Della Valle ha letteralmente fatto le scarpe licenziandolo in tronco solo perché gli aveva scritto una lettera aperta. È accaduto la prima volta nel 2001, poi non ho smesso più questo solitario pellegrinaggio fatto a piedi, sopra i treni, in corriera, raggiungendo i luoghi più diversi in macchina o con mezzi di fortuna. Così ora sono qui, alle tre del mattino, dove inizia un'altra di queste storie che nessuno racconta, una narrazione che nessuno colpevolmente vuole più fare, mentre i giornali e i magazine padronali ripetono, all'incontrario, l'epica patinata dei capitani d'industria. Dove li avevano fatti sparire gli operai? Cancellati dalla pornografia televisiva, scherniti come fossero Mammut o pezzi di modernariato, oggi si giocano l'ultima partita, quella della dignità, in un paese spaventosamente affogato nell'orgia del potere e nell'impotenza di una sinistra balbuziente.
Quando arrivo nella zona industriale di Jesi è ancora buio pesto. Scorgo sulla via dove transito, che naturalmente è via Giovanni Agnelli, un assembramento di persone. Sono le tre del
mattino ma già saranno almeno in duecentocinquanta davanti allo stabilimento dove si producono trattori New Holland. Sono quasi tutti giovani, molte le ragazze, con figli a carico, i mutui da pagare, la vita incerta di questi nostri anni terribili. Al centro della strada un gazebo con le bandiere, di lato un fuoco che arde in un braciere, dietro il barbecue con la carbonella. Stanno arrostendo carne alla brace, la notte sarà lunga. Dovrebbe arrivare anche Marino Severini, voce barricadiera dei Gang. Davanti ai cancelli gli striscioni e un cartello con una delle copertine del nostro giornale: l'immagine ritrae Bonanni e Angeletti, sotto c'è il titolo perfetto «le mosche del capitale», con aggiunto in alto, scritto a pennarello, «servi». Un titolo che è quello di un romanzo quanto mai attuale di Paolo Volponi, marchigiano di Urbino, a un tiro di schioppo da qui. Di quest'epoca odiosa «dopo Cristo», così come l'ha definita un "geniale" pensatore della qualità globale (ha sostituito solo come vezzo il maglione agli orologi allacciati sui polsini, ma la razza è la stessa), aveva sentenziato malinconico: «Il racconto è finito. La narrazione, se vuole, è il bancone del supermercato. Lei non potrà mai raccontare niente di me!». Lui l'aveva conosciuto il mondo Fiat, se non altro per averci lavorato, se non altro per essere stato espulso nel 1975 solo perché aveva fatto dichiarazione di voto al Pci. Dal furgoncino con il gruppo elettrogeno la musica allestito dal Csoa Tnt, vanno uno dietro l'altro Jannacci, la Bella ciao dei Modena. Incontro il Segretario regionale della Fiom Ciarrocchi, che è già davanti al cancello a picchettare. Ritrovo Peppone, con la barba bianchissima e folta da patriarca, che non vedo da anni. Arriva Giampiero, che mi abbraccia e ci invita entrambi a bere un Rosso Conero denso, molto profumato. Serve a combattere il freddo, che qui si fa sentire.
«Questa è una fabbrica di novecentocinquanta operai, noi abbiamo un centinaio di iscritti, ma nelle elezioni delle Rsu siamo il primo sindacato», dice Ciarrocchi orgoglioso. Tra poco, alle cinque, smonteranno gli operai del turno di notte, si faranno avanti quelli del successivo. Quando cominciano ad arrivare, con i fagotti dove tengono le merende, stretti nei giacconi, un muro di corpi protegge il cancello dell'entrata. Un ragazzo giovane vuole passare, c'è un sapiente lavoro di spalle per cercare di farlo fermare a discutere. Uno gli dice «ci vogliono servi, se entri sei un servo anche tu». Lui risponde che è un interinale, insiste, lo lasciano andare. Subito dopo è il turno di una ragazza giovane. Spaurita avanza titubante, ma sorride. I compagni di lavoro ai picchetti la riconoscono, la chiamano per nome. Uno piuttosto svelto di lingua sui trent'anni le dice: «Vengo dalla Caterpillar, anche io ho i figli come te. Dai, non entrare, oggi è un giorno importante». La tipa è indecisa, poi alla fine decide: «Va bene, basta, vado via», e fila verso l'utilitaria. Segue un applauso, qualcuno la ringrazia. La scena si ripete poco dopo quando si presentano ai cancelli altri tre ragazzi. Uno di loro è più spavaldo, anche più alto e corpulento, cerca di scansare gli operai e di trovare un varco. Il "corpo a corpo" tra compagni di lavoro è drammatico, sento in questo scontro tutto sommato pacifico di arti, muscoli e parole, la difficoltà comunque sofferta di una scelta. Salgono le urla di «crumiri!», un vocabolo che sembrava essere caduto in disuso, prescritto dal pensiero dominante dell'epoca. Poi il tipo alto riesce ad entrare in fabbrica, apostrofato dagli insulti potenti dei presenti. Dice Ciarrocchi che non sono entrati più di dieci operai su 350, non riusciranno neanche ad avviare la produzione.
Sono quasi le sei, fa molto freddo, mi invitano a leggere. Prima di me parla una giovane rappresentante della Fiom, dice a tutti che è molto contenta, lo sciopero è riuscito, «è stata una giornata epica», ripete commossa, proprio così. Penso che se c'è davvero ancora qualcosa di epico è questa irriducibile classe operaia italiana. Continuano a presidiare le fabbriche, a fare gli scioperi della fame, sono saliti sui tetti e sulle gru, ma non si sono piegati ai nuovi padroni e alla loro volontà di potenza. Così mi viene in mente di leggere le poesie di un poeta metalmeccanico nato a Fermo, nella mia città, emigrato a Oslo negli anni '50, Luigi Di Ruscio, una delle voci più autentiche della poesia italiana contemporanea. Leggo un testo sulla fabbrica dove lui si descrive: «Inizia il giro delle ore sulla trafilatrice/che mi aspetta con la bocca spalancata/inizia la mia danza il mio spettacolo». Poi ne leggo un'altra molto conosciuta, di rara forza espressiva, una specie di manifesto della condizione operaia universale: «Chiudere un porco vero nel reparto/non un porco normale/un porco insomma, un maiale insomma/chiuderlo nel reparto per otto ore/vediamo come reagisce l'associazione protezione animali/vediamo come reagisce a questa estrema crudeltà il maiale/schianta strozza impazzisce s'indemonia» (...) «chi lavora in reparto/ è stato selezionato per tutta una cosa diversa/resisti allo schianto per tutta una stagione/sei un animale diverso farti a pezzi non serve a niente» (...) «chi lavora in una fabbrica per infinite ore consecutive/può diventare molto pericoloso/controllate tutti i telefoni/apri il suo cervello vedi cosa medita/misura la sua rabbia/aspettati che scoppi». Seguono gli applausi. Se li merita tutti.
Alle otto è già tutto chiaro, comincio a scorgere gli immediati dintorni. La grande fabbrica adesso è più visibile, silenziosa e spettrale, i guardiani in divisa sono sempre composti al loro posto come sentinelle. Varcato questo cancello finisce il nostro mondo e ne comincia un altro. Con regole diverse, con leggi diverse, anche qui dopo l'accordo di Mirafiori si sono azzerati i diritti fondamentali, si è tornati indietro di cento anni. Questa è l'ora comoda degli impiegati. Quando cominciano ad arrivare ti rendi conto subito che hanno un'antropologia di gesti e di vestiario diversissima. Cappelli brizzolati ben pettinati, paltò scuri eleganti, borse in cuoio o zainetti griffati. Gli impiegati assomigliano molto ai padroni, come i cani ai padroni dei cani. Gli operai li bloccano. «Oggi non si entra». Alla fine dello stradone vedo un'auto della Polizia, ma nessuno degli agenti a bordo interviene. Allora gli zelanti impiegati fanno dietrofront, sembrano andarsene verso le auto. Invece costeggiano la cancellata e vanno a passi rapidi sul retro, dove c'è un altro ingresso. Li seguo. Quando arrivano a destinazione stessa scena, gli operai serrano le fila, li bloccano. Allora intervengono i carabinieri, poi anche i poliziotti, vola qualche urlo, due strattoni in tutto, e alla fine questi signori e signore cinquantenni entrano, anche se le loro orecchie debbono sentirne di tutte i colori: «Servi!!...bastardi!!... tanto la globalizzazione non risparmierà neanche voi!!». Un ragazzo piuttosto agitato dice: «Non bisogna berci neanche più il caffè alle macchinette con quegli schifosi». Sono piccole mosche anche loro, somigliano ai «manager industriali di successo (...) le sapienti colorate voraci mosche del capitale, sì le mosche ... per di più svolazzano e ronzano dappertutto, in bell'inglese, per andare a succhiare e a sporcare» come scriveva sempre Volponi.
Ora si va tutti al Porto di Ancona, dove c'è la manifestazione e il comizio, ma il racconto deve continuare. «Non lasciamoli soli» hanno scritto in questi giorni un gruppo di intellettuali torinesi in un appello, ma in realtà sono loro che non hanno lasciati soli noi.

venerdì 28 gennaio 2011


(AGI) - Ancona 28 gen. - Adesione massiccia allo sciopero indetto dalla Fiom Cgil da parte degli operai e lavoratori delle industrie marchigiane.
  Secondo l'organizzazione sindacale, almeno il 75% degli addetti ha incrociato le braccia, oggi per sostenere l'iniziativa di protesta contro il cosiddetto "Piano Marchionne". Oltre alle 7mila persone che hanno partecipato al corteo di Ancona, che poi ha attraversato la citta' per terminare nella zona del porto, con l'intervento conclusivo del Segretario nazionale Sergio Bellavista, molte migliaia sono stati anche i lavoratori che hanno seguito le indicazioni della Fiom astenendosi dal lavoro nella propria azienda di appartenenza. Secondo il sindacato, le punte di maggior adesione sono state raggiunte nell'anconetano. Qui hanno scioperato il 90% degli operai dell'Ariston, il 90% dell'Ask, il 100% dell'At metalli, mentre alla Best il 75% e il 98% alla Fiat Cnh (macchine agricole) di Jesi. Alta adesione anche all'Isa , con il 100%, alla Faber con il 90%, alla Caterpillar con il 70%, all'Indesit con il 75% e all'Elica con il 60%.
  Nella provincia di Ascoli Piceno all'Indesit group di Comunanza si e' arrivati al 70% di lavoratori in sciopero, alla Cisa al 65%, all'Adim al 65%. Nel maceratese poi, l'adesione alla CI&T e' stata del 98% e alla GI&D del 70%. Alla Metallex di Fermo infine, l'80% degli operai ha partecipato all'iniziativa di protesta

Landini (Fiom): “All’Assemblea nazionale proporremo l’avvio di una campagna straordinaria di discussione nelle aziende per decidere come proseguire la mobilitazione per il Contratto nazionale, i diritti e la democrazia”

 

 “Oggi centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori metalmeccanici, quelli iscritti e non iscritti alla Fiom, sono con noi in questa come nelle altre piazze d’Italia.” Maurizio Landini, Segretario generale della Fiom-Cgil, ha iniziato così il suo intervento a Milano, guardando una Piazza del Duomo gremita a conclusione del lungo corteo partito da Porta Venezia.
“E’ il segno - ha affermato Landini - che la maggioranza dei lavoratori non solo rifiuta il modello autoritario di Marchionne, Federmeccanica e Confindustria, ma lotta per cambiare questo paese ingiusto. E’ il segno che abbiamo ragione e anche la forza per modificare il presente e costruire il futuro. Non ci fermeremo, continueremo fabbrica per fabbrica, azienda per azienda a lottare per riconquistare il Contratto nazionale, difendere i diritti e la democrazia.”
“Noi - ha proseguito Landini - diciamo no alla ‘modernità’ di chi vuole i lavoratori l’uno contro l’altro in nome della competizione. Sviluppo non è riduzione dei diritti, non è negazione della democrazia, ma innovazione, ricerca, intervento pubblico. A chi, nel mondo politico e non solo, ci ha spiegato cosa avrebbe fatto se fosse stato un operaio di Pomigliano o di Mirafiori, diciamo: provate a immedesimarvi tutti i giorni con chi produce la ricchezza di questo paese e cominciate ad occuparvi seriamente di lavoro. In questa piazza non ci sono solo i metalmeccanici, ci sono lavoratori di altre categorie, ci sono i giovani, gli studenti che si stanno battendo perché anche il sapere, come il lavoro è un bene comune.”
“Il rapporto che in questi mesi abbiamo costruito è l’elemento di novità ed è prezioso, perché le questioni che stiamo ponendo sono questioni generali, di tutti. E allora – ha concluso Landini tra gli applausi - abbiamo bisogno di unificare le lotte, di mettere in campo lo sciopero generale di tutti i lavoratori e solo la Fiom e la Cgil lo possono fare. Sappiamo perfettamente che non è facile da costruire, che non sufficiente, ma lo dobbiamo fare. I lavoratori sono pronti a battersi. Va bene partecipare, ma ci sono momenti in cui bisogna avere il coraggio di osare, di agire, perché se non lo fai, di sicuro hai già perso. E noi, questa battaglia la vogliamo e la possiamo vincere.”
“All’assemblea nazionale della Fiom - ha infine detto Landini -, assemblea che si terrà dal 3 al 4 febbraio a Cervia, proporremo l’avvio di una campagna straordinaria di discussione nelle aziende per decidere con le lavoratrici e con i lavoratori come proseguire nella mobilitazione per il Contratto nazionale, i diritti e la democrazia.”
Roma, 28 gennaio 2011

sabato 22 gennaio 2011

Verso un nuovo feudalesimo aziendale

di Guido Viale, il manifesto

A tutti i «modernizzatori» che hanno salutato il referendum di Mirafiori come l'ingresso delle relazioni industriali italiane nella «modernità» va ricordato che la Modernità, o «Età moderna», è iniziata nel 1492 con la scoperta dell'America. A quel tempo, nella Modernità, l'Italia delle Signorie era già entrata. Nei secoli successivi ha avuto alti e bassi (attualmente sta sicuramente attraversando un basso); ma se il 14 gennaio 2011 dovesse diventare una data storica, starebbe a segnare non l'entrata ma l'uscita del paese dalla Modernità: per ripiombare in un nuovo Medioevo; oppure, per instaurare una forma nuova di «feudalesimo aziendale». Perché?

Non mi soffermo sulla limitazione del diritto di sciopero - accordata dal nuovo contratto - che ogni lavoratore dovrà poi sottoscrivere individualmente; né sulla abolizione della rappresentanza elettiva a favore di una gestione dei contenziosi affidata ai sindacati firmatari (trasformati così in missi dominici: ovvero, agenti del padrone); temi già ampiamente trattati da altri. Ma che cosa succederà in produzione?

Gli operai verranno messi in cassa integrazione, prima ordinaria, poi straordinaria, motivata da un «evento improvviso e imprevisto» (così il contratto; che però prevede «l'imprevisto» con assoluta certezza) e finanziata con fondi Inps attinti dalla «gestione speciale» dei lavoratori precari (che in questo modo verranno scorticati delle loro già irrisorie pensioni) e da contributi statali aggiuntivi (alla faccia della rinuncia della Fiat agli aiuti di Stato).

Nel frattempo - oltre un anno - i lavoratori verranno convocati uno a uno per la firma del contratto individuale per vincolarli indissolubilmente ai termini dell'accordo. E per essere selezionati. Molti verranno scartati per una ragione o un'altra. È quello che Fiat sta già facendo con gli operai della Zastava, nonostante i generosi aiuti della Bei e del governo serbo. Marchionne sa bene che maestranze con un'età media di 48 anni (nel 2012), per il 30% composte da donne, e per un altro 30% certificate Rcl (ridotte capacità lavorative) non possono reggere i ritmi di lavoro previsti dall'accordo.

Poi verrà costituita la NewCo - sembra che si chiamerà Mirafiori Plant - ristrutturando gli impianti con fondi Chrysler e Fiat (il famoso miliardo: ma chi sa quanto sarà poi effettivamente speso?). A febbraio 2012, se tutto «va bene», comincerà la produzione. Di che cosa? Di Suv (che modernità!) con marchio Chrysler e Alfa, assemblati su pianali e con motori prodotti negli Usa, e poi rispediti negli Usa per essere venduti.

Mercato permettendo: anche con nuovi motori, i suv restano pur sempre i veicoli più energivori, quelli che avevano mandato a picco la produzione dei tre big di Detroit nel 2008; e il petrolio sta risalendo verso i cento dollari al barile. Ma che senso ha questo andarivieni tra Italia e Usa, quando persino lo stabilimento di Termini Imerese era stato giudicato improduttivo perché troppo lontano dai fornitori di componenti? Il senso è che tra le condizioni poste da Obama per consentire la scalata di Marchionne alla Chrysler c'è quella di esportare dagli Usa, e fuori dall'ambito Nafta (Canada e Messico), prodotti per almeno 1,5 mld di dollari.

Dunque, pianali e motori trasferiti da Detroit a Torino (cioè da Chrysler a Fiat Plant: due società differenti anche se controllate dallo stesso management) dovranno concorrere nella misura maggiore possibile al raggiungimento dell'obiettivo. Ovvio che l'esportazione di componenti verrà sovrafatturata (lo ha già prospettato anche Massimo Mucchetti sul Corsera) e i margini di Mirafiori ridotti all'osso (o erosi completamente per giustificare successivi ridimensionamenti o la chiusura dello stabilimento); con tanti saluti per coloro che dalla produzione di nuovi modelli a più alto valore aggiunto - cioè più grandi, più complicati, più lussuosi, più spreconi, per soli ricchi - si aspettano la rimessa in sesto del Gruppo. Ma quale Gruppo?

L'accordo di Mirafiori, dopo quello di Pomigliano, dopo la dismissione di Termini Imerese, dopo lo spin-off di Fiat Industrial - la separazione dall'auto di Cnh e Iveco, i settori più redditizi rimasti in mano agli Agnelli - e in attesa di nuovi accordi anche per Cassino e Termoli (Melfi, cioè Sata, sta già per conto suo), prelude alla dissoluzione di Fiat Group.

Intanto va notato che: a) Mirafiori - «nocciolo storico» del gruppo - non produrrà più macchine Fiat e diventerà una «fabbrica cacciavite» che lavora per altri; b) Pomigliano eredita le produzioni e l'organizzazione della fabbrica polacca di Tychy, che è di Fiat ma lavora anche per Ford e che, in attesa di chiarimenti, lavorerà sempre di più per altri; c) Magneti Marelli è in vendita; d) Maserati, Alfa, Lancia e Ferrari sono oggi, con l'eccezione dell'ultima, soprattutto marchi: che possono essere venduti come «marchi senza fabbrica», così come Tychy e Mirafiori sono o possono diventare «fabbriche senza marchio». E poi?

Poi la crisi è tutt'altro che superata. Le finanze di tre quarti dei paesi dell'Ue sono a rischio. I consumi ristagnano. Il mercato europeo dell'auto (a differenza di quelli Usa e asiatico) non dà segni di ripresa. A livello mondiale la capacità produttiva è di 100 milioni di veicoli all'anno mentre la domanda è stata di 60 milioni (sarà forse di 70 quest'anno). C'è un eccesso di capacità non solo in Europa e negli Usa, ma anche in Giappone, Cina e Corea, i cui produttori sono pronti a scalare la classifica delle vendite in Europa.

Qualcuno si è chiesto quali siano i vantaggi competitivi con cui Marchionne conta di vendere ogni anno in Europa un milione in più di vetture fabbricate in Italia. Cioè di portare via almeno un milione di vendite annuali a Volkswagen, senza perdere colpi di fronte a Daimler e Kia-Yundai, in piena ascesa, o a Reanult-Nissan e Toyota, molto più solide, per non parlare dello sbarco in Europa dei produttori cinesi.

Alcuni oggi si chiedono che chance può avere una competitività ottenuta strizzando ancor più gli operai, il cui costo incide per non più del 7% sul prezzo finale del veicolo. Molti meno si sono chiesti che senso ha paragonare i 100 o 80 veicoli annui per addetto prodotti da Fiat in Polonia o in Brasile con i 30 degli stabilimenti italiani. A parte la differente complessità dei modelli e il differente confine tra fornitura esterna e fasi internalizzate, come si fa a paragonare la produttività di fabbriche che lavorano a pieno ritmo con quella di impianti dove le giornate di cassa sono più di quelle lavorate?

La verità è che se Marchionne vuole vendere, o affittare, o dare in uso ad altri i suoi impianti, ciascuno dei quali farà capo a una diversa società, il valore aggiunto di una manodopera messa alle corde è molto maggiore di quello degli impianti dello stabilimento che li impiega. Ma le due cose sono indisgiungibili. È questo il feudalesimo aziendale a cui ci sta portando l'accordo di Mirafiori; quello che fa degli operai i nuovi «servi della gleba» dell'impresa globalizzata.

Marchionne e i suoi azionisti se riescono a portare a termine la scalata a Chrysler possono anche permettersi di mandare a fondo i lavoratori della Fiat, dopo averli legati con un accordo capestro ai loro rispettivi stabilimenti. Ne ricaveranno un aumento di utili e stock option. Ma chi vive del suo lavoro non può farlo.

Però il futuro degli impianti, del knowhow e del lavoro che oggi fanno ancora capo a Fiat o al suo indotto non riposa più sull'industria dell'auto. I settori che hanno un avvenire sono quelli che conducono verso la sostenibilità: rinnovabili, efficienza energetica, ecoedilizia, riassetto del territorio, mobilità flessibile, agricoltura e alimentazione biologiche. Il tutto - tendenzialmente - a rifiuti e a km zero.

Ma la conversione ecologica dell'apparato produttivo e dei nostri consumi avrà ancora bisogno per un tempo per ora indefinibile di industria, economie di scala, grandi flussi di materiali, grandi impianti (il contrario dei chilometri zero) e di lavoratori impegnati, seppure in maniera più creativa e intelligente, su di essi. Sono temi ineludibili. Ma chi può mai lavorare a una prospettiva del genere?

Gli accordi capestro della Fiat avvicinano quello che un tempo era l'esercito dei «garantiti» alla condizione di un sempre più diffuso precariato. Mentre i temi e i modi in cui è andata crescendo la lotta contro la distruzione di scuola, università, ricerca e cultura fa di quel movimento, composto da precari attuali (ricercatori e studenti che lavorano per mantenersi agli studi) e futuri (milioni di giovani a cui è stato rubato il futuro), il segmento più organizzato dell'oceano del precariato italiano.

La domanda di saperi che non servano a costruire operatori, tecnici, insegnanti e ricercatori asserviti a datori di lavoro estemporanei o a imprese ed enti fantasma, dove nessuno avrà mai la sicurezza di un reddito né la possibilità di realizzare le proprie potenzialità, non traduce solo il rigetto della riforma Gelmini e la critica pratica delle forme e dei modi in cui la trasmissione dei saperi viene organizzata e finanziata. Esprime soprattutto la rivendicazione - che può farsi proposta, pratica attiva, percorso di realizzazione - di una riforma della ricerca e dei saperi che investa i contenuti della conoscenza, le sue le finalità, la frantumazione dei saperi in tanti ambiti disciplinari privati di qualsiasi consapevolezza.

Per questo il tema centrale di ogni possibile riforma di scuola, università, saperi, cultura dovrebbe essere la conversione ecologica: una prospettiva che richiede l'integrazione di conoscenze sociali, tecniche, giuridiche, economiche, storiche con pratiche fondate sul confronto e la lotta, ma anche sulla capacità di fare proposta e di promuovere organizzazione. Pratiche che possono trovare punti di riferimento e di applicazione concreti nelle lotte dei precari, dei lavoratori delle fabbriche in crisi, dell'opposizione esplicita o soffocata (come i «sì» di Mirafiori) all'avvento del nuovo feudalesimo aziendale.

(20 gennaio 2011)

UNITI CONTRO LA CRISI / ASSEMBLEA @ JESI (estratto)

mercoledì 19 gennaio 2011

Sciopero Fiom, a Jesi la 'Notte Bianca' della Fiat


Il programma della mobilitazione del 28 gennaio nelle Marche


Dopo Mirafiori, la Fiom delle Marche con il segretario generale Giuseppe Ciarrocchi traccia il percorso che condurrà il sindacato allo sciopero generale del 28 gennaio. Lo si apprende in una nota della sigla di categoria che annuncia una serie di iniziative tra cui, anzitutto, l'appello per raccogliere firme a sostegno della lotta per i diritti dei lavoratori. Le assemblee per spiegare i contenuti dell’accordo di Mirafiori si stanno svolgendo in tutta la regione e nei sit-in nelle principali piazze marchigiane. 
Domani, 20 gennaio, è in programma l’arrivo di Maurizio Landini, segretario generale delle tute blu Cgil, per partecipare alle assemblee alla Fiat Cnh di Jesi, dalle ore 8 alle 9 e poi dalle 17 alle 18. Sempre domani, a partire dalle ore 9,30, Landini prenderà parte all’assemblea regionale di delegati Fiom alla Fiera della Pesca di Ancona, aperta anche a rappresentanti di altri movimenti e associazioni. La giornata di Landini si concluderà alle 21 a Jesi con un incontro al centro sociale di Jesi, Tnt. 

Per lo sciopero generale, nelle Marche è prevista la "Notte Bianca" della Fiat: dalla mezzanotte fino alle 8,30 del mattino, lavoratori e sindacalisti, con l’adesione di movimenti e associazioni, si ritroveranno davanti allo stabilimento della Fiat Cnh di Jesi. Poi, alle ore 10, la manifestazione per lo sciopero: il concentramento è al Mandracchio di Ancona per poi dare vita al corteo per le vie della città.


se magna, se canta, se svina

 ps. Per la buona riuscita dell'iniziativa si auspica una massiccia presenza dei lavoratori   

Fiom. Maurizio Landini: Sciopero generale 28 gennaio 2011

martedì 18 gennaio 2011

MIRAFIORI. Referendum, una lezione al paese, di Felice Roberto Pizzuti dal Manifesto

Nella situazione italiana, il risultato del referendum a Mirafiori è una vittoria morale per chi ha votato No e una lezione che gli operai hanno dato al Paese e a quanti, anche tra le forze progressiste e di sinistra, hanno dato segni d'inconsapevolezza del reale valore della posta in gioco alla Fiat e delle sue molteplici dimensioni economiche, di democrazia e etiche.
Sul piano economico, la Fiat ha riproposto la logica che in anni di dibattito è stata riconosciuta come la causa strutturale del declino economico (e non solo) del nostro Paese; essa è consistita nel perseguire con miopia la competitività essenzialmente sul piano dei prezzi - riducendo il costo del lavoro e aumentando la sua flessibilità d'impiego (la cosiddetta corsa al ribasso delle condizioni economico-sociali) - anziché puntare sulla più lungimirante innovazione tecnologica e qualitativa e sul corrispondente maggior impiego di lavoro stabile e qualificato che identificano i paesi nella fascia alta della divisione internazionale del lavoro ( e dello sviluppo economico-sociale). Sul piano economico aziendale è particolarmente significativo che l'incentivo dato al top management che propone e attua la strategia aziendale sia legato a risultati finanziari di breve periodo (il valore delle stock options) e non ai risultati produttivi; e infatti, le quote di mercato della Fiat sono in caduta libera mentre il valore delle sue azioni crescono!
Il referendum di Mirafiori poneva e pone in discussione anche questioni che riguardano le regole della democrazia del lavoro e della democrazia tout-court. Come si può ammettere un voto cui si partecipa con la pistola puntata alla tempia che minaccia i lavoratori, in caso di esito sgradito all'impresa, di eliminare il posto di lavoro, cioè la fonte di sostentamento per loro e la loro famiglia? Più ancora la vicenda Fiat dovrebbe imporre all'attenzione aspetti morali. La Fiat è guidata da un manager la cui paga base è circa quattrocento volte il salario dei suoi operai (con le stock options il rapporto sale a diverse migliaia di volte), e opera per conto di una proprietà i cui membri storici più "illustri" solo pochi mesi fa hanno accettato una transazione giudiziaria con il fisco italiano che contestava loro evasione fiscale ed esportazione illegale di capitali all'estero per miliardi di euro; così stando le cose, come si può criticare la resistenza dei lavoratori al ricatto di accettare un ulteriore peggioramento delle condizioni minime di lavoro rispetto a quanto avviene nelle altre grandi imprese automobilistiche europee dove i salari sono superiori anche del 30-40%, l'orario di lavoro è inferiore, i bilanci aziendali sono positivi e le quote di mercato sono crescenti? E come è possibile che queste posizioni, che paradossalmente si ammantano di modernità, possano beneficiare di un consenso molto diffuso anche tra le forze progressiste e di sinistra? Quest'ultima domanda rivela essa stessa la situazione di crisi drammatica in cui versa il nostro Paese che è non solo economica, ma anche civile e morale. Se è vero che un uomo è quello che fa, un paese è cosa produce, come lo produce, come assegna e impiega inizialmente le sue risorse (a cominciare dal tempo di formazione, di lavoro e libero), come ripartisce la responsabilità e l'informazione concernenti le decisioni produttive e come ne distribuisce i risultati. Il declino del nostro paese in atto da almeno due decenni è connesso a peggioramenti progressivi su tutti questi piani che concorrono allo sviluppo economico, sociale e civile. I beni prodotti e le tecniche utilizzate sono sempre più "maturi"; ne segue che non abbiamo bisogno di ricerca e di istruzione (i tagli ai finanziamenti della scuola e dell'università non sono un caso e non dipendono solo dalla crisi; come è noto, «la cultura non si mangia» e questo non è più un paese per persone istruite); si cercano invece lavoratori dequalificati da impiegare in modo "flessibile" e basso costo; il reddito e la ricchezza in senso lato crescono meno e necessariamente vengono distribuiti nel modo sempre più sperequato corrispondenteall'organizzazione produttiva; le condizioni dei diritti delle condizioni del lavoro e sociali necessariamente devono essere adeguati al ribasso. Il voto No espresso dagli operai di Mirafiori va inteso come un segnale di resistenza e d'inversione rispetto a questa china; le forze progressiste del Paese non dovrebbero ignorare questo segnale, ma accoglierlo e valorizzarlo. E a proposito di questioni etiche, sarebbe opportuno che la necessità di riportare l'attenzione sulle problematiche connesse alla vicenda Fiat non venisse "distratta" più di tanto dalla deprimente discussione sulle abitudini sessuali del premier, poiché pregiudicare le regole democratiche e la dignità del lavoro è una questione incomparabilmente più grave, che intacca la struttura portante della nostra convivenza. i no al referendum imposto dall'ad Marchionne. I sì, nella consultazione di venerdì scorso, hanno raggiunto il 54% grazie a impiegati e lavoratori notturni. MAURIZIO LANDINI «O si riapre la trattativa o se la Fiat vuole andare avanti, noi metteremo in campo tutte le azioni necessarie, sindacali, contrattuali e anche giuridiche». Lo ha detto ieri il segretario Fiom.

Per Marchionne il lavoro è una commodity e leggi e contratti non esistono

di Giorgio Cremaschi
L’intervista che il direttore de “La Repubblica” ha fatto all’Amministratore Delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha il pregio dell’assoluta chiarezza. Non c’è’ una sola parola nelle due pagine dell’intervista che faccia riferimento alla Costituzione, al Contratto nazionale, allo Statuto dei lavoratori. Per Marchionne semplicemente non esistono. Non a caso tutto il suo ragionamento è fondato sul più puro diritto commerciale. Il lavoro è una merce che deve essere acquistata ai prezzi del mercato internazionale, come il petrolio o il grano. Il lavoro è quella che nel gergo di Marchionne si chiama una commodity, cioè una merce per cui vale solo il prezzo di mercato ma non le specifiche particolarità dei contratti.
Tutto il suo ragionamento ha questa brutalità ed è davvero penoso che poi, alla fine, si rispolveri come goffo contentino, la promessa di aumentare gli stipendi e di far partecipare agli utili. Quest’ultima venne già lanciata nel 1920, alla vigilia del fascismo, dal fondatore della Fiat, Gianni Agnelli. Quanto alla promessa di aumenti è bene ricordare che intanto i salari sono stati calati, cancellando il premio di risultato di 1.200 euro all’anno.
Nelle due pagine dell’intervista ancora una volta Marchionne non dice nulla sui suoi progetti industriali, che a questo punto appaiono sempre più fumosi e privi di credibilità. Mentre parla con chiarezza il gergo delle multinazionali e della speculazione finanziaria, quello che ha fatto sì che con il risultato del referendum salisse il titolo Fiat, indipendentemente dalla produzione effettuata. La proprietà Fiat sta guadagnando con le azioni, e Marchionne con le stock option, anche senza produrre e vendere automobili e questa è la dimostrazione che la strategia di Marchionne è solo di speculazione finanziaria.

lunedì 17 gennaio 2011

Lettera alle iscritte e agli iscritti della Fiom

Care metalmeccaniche, cari metalmeccanici iscritti alla Fiom, care compagne, cari compagni, è in atto il più grave attacco ai diritti e alle libertà del mondo del lavoro dal 1945 a oggi. Tutto è in discussione, il contratto nazionale, gli orari di lavoro, il salario, i diritti e le libertà.
Tutto si vuol cancellare senza consultare davvero le lavoratrici e i lavoratori. Sugli accordi separati nazionali che distruggono contratti, diritti e libertà, si rifiuta il referendum perché si teme il no di un voto libero. Invece si impongono consultazioni capestro fondate sulla minaccia della perdita del posto di lavoro. Solo chi subisce questo ricatto può votare e la sua rinuncia a tutto dovrebbe poi valere per tutti.
Negli stabilimenti Fiat di Pomigliano e Mirafiori, a Napoli e a Torino, l'azienda ha deciso che non si applicherà più il contratto nazionale. Non ci saranno più le 40 ore settimanali, gli straordinari obbligatori triplicheranno, verranno tagliate le pause e aumentati i ritmi di lavoro, si imporranno le turnazioni più disagiate e le lavoratrici e i lavoratori saranno sempre a disposizione dell'azienda, per ogni mansione, per ogni turno. Verrà proibito ammalarsi, perché tutte le malattie saranno considerate assenteismo da punire.
Non si potrà più scioperare pena il licenziamento e non si potranno più scegliere con il voto libero e segreto i rappresentanti sindacali, si aboliscono le elezioni delle rsu e le libere assemblee e si vuole eliminare la Fiom in fabbrica. Gli unici sindacalisti ammessi in azienda saranno quelli nominati dalle organizzazioni sindacali che accettano la fedeltà al regime brutale imposto ai lavoratori. I lavoratori dovranno solo piegare la testa alle pretese dell'azienda, anche alle più ingiuste e distruttive della salute e della dignità.
La Fiom a tutto questo ha opposto un chiaro NO e proprio per questo oggi subisce un attacco che ne vuol mettere in discussione la stessa esistenza, con una prepotenza autoritaria che non ha precedenti negli ultimi decenni. Altre organizzazioni sindacali hanno accettato il ricatto della Fiat spiegando che così si salvano i posti di lavoro. In realtà hanno pensato solo a salvare se stesse, ma così si sono messe in condizioni di subire qualsiasi ricatto, in qualsiasi situazione, in qualsiasi azienda.
I diritti che ancora abbiamo non sono nostri. Essi nascono dalle lotte di coloro che ci hanno preceduto e li hanno conquistati a caro prezzo. Noi abbiamo il dovere di difenderli non solo per noi, ma ancor di più per coloro che verranno dopo di noi.
Se si affermasse ovunque il modello della Fiat, tutto il lavoro sarebbe condannato al superfruttamento. Già oggi i giovani subiscono una precarietà vergognosa. Quale futuro vogliamo costruire? La Fiom è oggi sotto attacco perché ha deciso di non piegare la testa e chi vuole distruggere il contratto e i diritti sa che non ce la può fare finché la Fiom resiste e lotta.È capitato così sulle spalle della nostra organizzazione e di tutti e tutte coloro che sono iscritti ad essa un compito eccezionale. Sono costose le ore di sciopero ed è molto più comodo in fabbrica e fuori piegarsi alla prepotenza. Ma sarà molto più duro e costoso un futuro con il ricatto continuo del licenziamento e senza contratto nazionale, senza un vero salario, senza limiti agli orari e alle flessibilità, senza diritto di sciopero e senza libertà.
Il sindacato è nato per impedire che le lavoratrici e i lavoratori si facessero concorrenza al ribasso tra loro pur di lavorare. Ora, nel nome della globalizzazione, si vuol tornare a quella competizione selvaggia. Non si conserva il lavoro inseguendo le peggiori condizioni e i salari piu bassi! Il lavoro si difende con gli investimenti, la ricerca, l'innovazione e anche con la giustizia sociale. Chi si piega al ricatto del supersfruttamento non salva il lavoro, ma al contrario accetta che esso sia ancora più incerto e precario. La Fiom non vuol tornare alle condizioni dell'800, a una società dove non ci sono più diritti e contratti e la stessa Costituzione della Repubblica diventa un peso che, nel nome della competizione, bisogna scaricare al di fuori di ogni luogo di lavoro.
Essere iscritti alla Fiom in questo momento richiede un impegno e un coraggio particolari per contrastare la paura e la rassegnazione. Il sindacato oggi deve dare coraggio alle tante lavoratrici e ai tanti lavoratori che subiscono i ricatti della crisi e le prepotenze del padrone. Oggi più che mai il sindacato deve servire per darsi quella forza che uno per uno non si ha.
Tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori oggi hanno bisogno della Fiom, in tanti oggi, anche nella società, sostengono le nostre scelte sentendo in esse una speranza per il futuro. Facciamoci forza nella Fiom, abbiamo con noi la ragione, la giustizia e il diritto, contiamo sulla partecipazione, il coraggio e l'orgoglio di tutte e tutti. Assieme fermeremo l'aggressione ai diritti e alle libertà, assieme affermeremo la dignità del lavoro in una società più giusta. Sarà dura, ma ce la faremo.

Federazione impiegati operai metallurgici CGIL

domenica 16 gennaio 2011

A Marchionne un no chiaro ed inequivocabile



di Giorgio Cremaschi. 

Con le lacrime agli occhi. Di gioia stavolta i lavoratori italiani hanno accolto il voto di Mirafiori. Al di là di qualche piccolo escamotage dell’ultima ora oramai è chiaro che la maggioranza degli operai non ha detto sì a Marchionne e che la netta maggioranza di coloro che subiscono il più duro attacco alle condizioni di lavoro, gli addetti ai montaggi e alla lastroferratura ha detto un no chiaro ed inequivocabile. Il sì passa sostanzialmente per la valanga di voti favorevoli degli impiegati che, come da tradizione in Fiat, hanno deciso che era giusto che gli operai lavorassero a condizioni che essi non subiranno mai. La portata immediata di questo voto è enorme. 
Questo vuol dire che il disegno di Marchionne di cancellare la libertà e l’autonomia del lavoro in fabbrica è, allo stato attuale, privo del consenso e della forza necessaria per affermarsi. Le tante mosche cocchiere politiche e sindacali possono anche affrettarsi a dire che ha vinto il sì, ma Marchionne sa perfettamente di avere perso. Ora si apre la via per mettere in discussione questo accordo. C’è il tempo necessario anche perché ai lavoratori a cui è stata chiesta una rinuncia preventiva a tutto, spetta ancora un anno di cassaintegrazione. Altro che i 3500 euro in più. Bisogna costruire una risposta sindacale, politica e giuridica, vista la quantità di violazioni di leggi e diritti che sono contenuti nelle clausole capestro dell’accordo. Ma ancora più grande è la portata di fondo di questo voto. Il no degli operai di Mirafiori ci dice che la politica del lavoro usa e getta la negazione di piani industriali seri e credibili, l’assenza di reali programmi per il futuro, non possono più essere spacciati come la modernità che risolve la crisi. Si è creato lo spazio oggi per costruire un programma economico e sociale alternativo a quello di Marchionne e del liberismo selvaggio e per sostenerlo con un grande movimento di lotta. Il no degli operai di Mirafiori parla a tutto il mondo del lavoro che non vuol più piegare la testa, parla ai giovani e agli studenti, a tutti i movimenti. Questo no dice a tutti che è possibile respingere il ricatto e incrinare quel regime di ingiustizie e sopraffazione che solo sul ricatto fonda la sua forza. Il no degli operai di Mirafiori parla alla Cgil e le chiede con chiarezza di mettersi a fianco di tutti i movimenti di lotta e di programmare finalmente quello sciopero generale che è oramai nell’ordine delle cose. Infine questo no parla alla politica. Le anime morte della sinistra che hanno spiegato al mondo che come operai di Mirafiori avrebbero votato sì, oggi si identificano solo con il voto degli impiegati. La sinistra che non capisce più gli operai e la questione sociale e che si innamora di ogni Marchionne che le vende modernità a basso costo, ha finito il suo percorso nel nostro Paese. Gli operai di Mirafiori chiedono di essere rappresentati da altro. Infine è giusto che tutti e tutte noi ringraziamo i militanti della Fiom e del sindacalismo di base, le loro Rsu che a Mirafiori, contro tutto il regime mediatico e tutte le intimidazioni, hanno creduto in questa battaglia. Certo grandi sono i meriti della Fiom, e provo orgoglio nel ricordarli. Ma so anche che il merito principale di questa organizzazione è quello di essere in sintonia con quella parte crescente del nostro Paese che non ha più voglia di piegare la testa e che considera che il regime del ricatto nel nome del profitto non sia più socialmente e moralmente tollerabile. Così il no degli operai di Mirafiori accompagna un’altra grande buona notizia. Il successo della prima rivoluzione del ventunesimo secolo quella dei giovani e degli operai tunisini che hanno travolto la dittatura che li opprimeva. Proprio in queste settimane la Tunisia, assieme alla Serbia, era diventata uno di quei paesi utilizzati per spiegare agli operai italiani che debbono rinunciare a tutto altrimenti lì va a finire il loro lavoro. Come si vede anche questi ricatti alla fine hanno una prospettiva corta perché tutto il mondo comincia a ribellarsi al supersfruttamento dell’economia globalizzata. E proprio in questi giorni, anche in Serbia, gli operai stanno scioperando contro i ricatti della Fiat. Grazie operai e operaie di Mirafiori, con voi oggi ci sentiamo tutti più liberi e un po’ più forti. Ci ritroveremo subito tutti assieme in piazza il 28 gennaio.

Roma 16 gennaio 2011

Landini da Fazio a Che tempo che fa del 15 Gen 2011.mpg

 L'onore di Cipputi

Hanno votato tutti i salariati, ieri a Mirafiori, sull'accordo proposto dall'amministratore delegato Marchionne. Tutti, una percentuale che nessuna elezione politica si sogna. E sono stati soltanto il 54% i sì e il 46% i no, un rifiuto ancora più massiccio di quello di Pomigliano. Quasi un lavoratore su due ha respinto quell'accordo capestro, calato dall'alto con prepotenza, ed esige una trattativa vera.
Per capire il rischio e la sfida di chi ha detto no, bisogna sapere a che razza di ricatto - questa è la parola esatta - si costringevano i lavoratori: o approvare la volontà di Marchionne al buio, perché non esiste un piano industriale, non si sa se ci siano i soldi, vanno buttati a mare tutti i diritti precedenti e al confino il solo sindacato che si è permesso di non firmare, la Fiom, o ci si mette contro un padrone che, dichiarando la novità ed extraterritorialità di diritto della joint venture Chrysler Fiat, si considera sciolto da tutte le regole e pronto ad andare a qualsiasi rappresaglia. L'operaia che è andata a dire a Landini «io devo votare sì, perché ho due bambini e un mutuo in corso, ma voi della Fiom per favore andate avanti» dà il quadro esatto della libertà del salariato. E davanti a quale Golem si è levato chi ha detto no. Tanto più nell'epoca che Marchionne, identificandosi con il figlio di Dio, ha definito «dopo Cristo», la sua.
Si vedrà che farà adesso, con la metà dei dipendenti che gli ha fatto quel che in Francia chiamano le bras d'honneur e la sottoscritta non sa come si dica in Italia, ma sa come si fa; perché alla provocazione c'è un limite, o almeno c'era. Nulla ci garantisce, né ci garantirebbe anche se avesse votato «sì» l'80 per cento delle maestranze, che Marchionne sia interessato a tenere la Fiat, a farla produrre quattro volte quanto produce ora, a presentare quali modelli e se li venderà in un mercato europeo stagnante, nel quale la Fiat stagna più degli altri. Se avesse intelligenza industriale, o soltanto buon senso, riaprirebbe un tavolo di discussione, scoprirebbe le sue carte, affronterebbe il da farsi con chi lo dovrà fare. Questo gli hanno mandato a dire i lavoratori di Pomigliano e quelli di Mirafiori.
Da soli, solo loro. Perché la famiglia Agnelli, già così amata dalla capitale sabauda da aver pianto in un corteo interminabile sulle spoglie dell'ultimo della dinastia che aveva qualche interesse produttivo, l'avvocato, non ha fatto parola. In questo frangente si è data forse dispersa, non si vede, non si sente, pensa alla finanza.
Né ha fatto parola il governo del nostro scassato paese, che pure, quale che ne fosse il colore, ha innaffiato la Fiat di miliardi, ma si lascia soffiare l'ultimo gioiello in nome della vera modernità, che consiste nel sapere che non si tratta di difendere né un proprio patrimonio produttivo, né i propri lavoratori - quando mai, sarebbe protezionismo, da lasciare soltanto agli Usa, alla Francia e alla Germania che si prestano a raccogliere le ossa dell'ex Europa. A noi sta soltanto competere con i salari dell'Europa dell'Est, dell'India e possibilmente della pericolosa Cina.
Tutti i soloni della stampa italiana hanno perciò felicitato Marchionne che, sia pur ingloriosamente e sul filo di lana, è passato.
La sinistra poi è stata incomparabile. Quella politica e le confederazioni sindacali. Aveva dalla sua parte storica, che è poi la sua sola ragione di esistere, una Costituzione che difende come poche i diritti sociali in regime capitalista. Gli imponeva - gli impone - quel che chiamano il modello renano, un compromesso non a mani basse, keynesiano, fra capitale e società, che garantisce in termini ineludibili la libertà sindacale. Fin troppo se le confederazioni sono riuscite fra loro, attraverso qualche articolo da azzeccagarbugli dello statuto dei lavoratori, a impegolarsi in accordi mirati a far fuori i disturbatori, tipo i fatali Cobas, per cui oggi nessuno osa attaccarsi all'articolo 39, che - ripeto - più chiaro non potrebbe essere. La Cgil ha strillato un po' ma avrebbe preferito che la Fiom mettesse una «firma tecnica» a quel capolavoro suicida. Quanto ai partiti non c'è che da piangere. D'Alema, che sarebbe dotato di lumi, Fassino, Chiamparino, Ichino, il Pd tutto hanno dichiarato che se fossero stati loro al posto degli operai Fiat - situazione dalla quale sono ben lontani - avrebbero votato sì senza batter ciglio. Diamine, non c'erano intanto 3.500 euro da prendere? Ma che vuole la Fiom, per la quale è stato coniato lo squisito ossimoro di estremisti conservatori?
Molto basso è l'onore d'Italia, scriveva un certo Slataper. Da ieri lo è un po' meno. Salutiamo con rispetto, noi che non riusciamo a fare granché, quel 46% di Cipputi che a Torino, dopo Pomigliano, permette di dire che non proprio tutto il paese è nella merda.

sabato 15 gennaio 2011

 


 Fiat: Landini (Fiom), è un risultato straordinario, un atto di saggezza  riaprire la trattativa.


  "Quello di Mirafiori è un risultato straordinario e inaspettato. Ringraziamo tutti i lavoratori e le lavoratrici che, anche sotto ricatto, hanno difeso la loro dignità e quella di tutti i lavoratori italiani."
"Alla luce di questo risultato, sarebbe un atto di saggezza da parte di Fiat riaprire una trattativa vera, perché le fabbriche, per funzionare, hanno bisogno del consenso dei lavoratori, ed è evidente che l'Azienda non ce l'ha. Il sindacato e i lavoratori vogliono l'investimento, ma vogliono anche continuare ad avere diritti e dignità." Se c'è un sindacato che, con questo voto, dimostra di essere rappresentativo è la Fiom. Ci si dovrebbe chiedere come si fa a governare le fabbriche senza consenso. La Fiom non rinuncerà ad essere in quella fabbrica''.
 
Roma, 15 gennaio 2011

SABATO 15 GENNAIO:MAURIZIO LANDINI OSPITE ALLA TRASMISSIONE "CHE TEMPO CHE FA" di Fazio ore 20.10

giovedì 13 gennaio 2011

 
 
 
  
Resisteremo al fascismo aziendale

di Giorgio Cremaschi.  

Comunque vada il referendum a Mirafiori noi andremo avanti. La lotta contro l’autoritarismo e il fascismo aziendale di Marchionne e per un lavoro dignitoso e libero continuerà. E’ stata la Fiat a volere questo referendum, come hanno mostrato anche le goffe richieste di alcuni sindacati di rinviarlo. E’ stata la Fiat a volere il giudizio di Dio conclusivo sul contratto nazionale e sui diritti e le libertà sindacali. I lavoratori di Mirafiori dovrebbero votare per conto di tutti i lavoratori italiani la rinuncia  a tutto. Questo referendum non ha alcuna legittimità formale e morale, è solo una brutale estorsione a danni di lavoratrici e lavoratori che, in condizione libera, non avrebbero un dubbio a dire di no. La Fiat per prima ha dichiarato di non essere disposta ad accettare il no minacciando la chiusura della fabbrica. Perché allora, nel caso opposto, dovrebbe farlo la Fiom? Sapendo che anche coloro che voteranno sì lo faranno con la rabbia e le lacrime agli occhi?
Che il principale partito di opposizione, che si autodefinisce democratico, non veda la lesione dei principi costituzionali della democrazia in questo plebiscito autoritario, è la più grande vittoria di Berlusconi. Questo referendum è illegittimo formalmente e moralmente, anche perché secondo l’accordo dovrebbe essere l’ultima volta che si vota. Come in tutte le tirannie, si vota di non votare mai più. Non si eleggeranno più le rappresentanze sindacali, e le assemblee di oggi dovrebbero essere le ultime libere. Le iscrizioni alla Fiom saranno proibite, così come qualsiasi forma di libera scelta sindacale. Come chiamare questo, se non fascismo aziendale? D’altra parte, per imporre le condizioni di supersfruttamento che vuole la Fiat si può solo creare un regime di ricatto permanente. Anche dopo il voto, se dovesse passare il sì, i lavoratori subiranno sempre la minaccia o del  licenziamento individuale, con le clausole capestro che saranno costretti a firmare uno per uno, o della chiusura della fabbrica, come è scritto nell’accordo. Di fronte a questa vergogna tutte le parole paiono insufficienti e forse solo le lacrime del pensionato Fiat, comparse su tutte le tv, esprimono il dramma. Chi vede in questo il progresso o è un mascalzone o è un’idiota.
Comunque vada il voto i lavoratori non resteranno soli perché avranno la Fiom al loro fianco, dentro e fuori dalla fabbrica, nell’iniziativa sindacale così come di fronte ai giudici. La Fiom non firmerà mai questo accordo e continuerà la lotta per rovesciarlo. Non ci sono riusciti i tedeschi, nel 1945, a distruggere Mirafiori, non ci riuscirà Marchionne oggi.

mercoledì 12 gennaio 2011

Maurizio Landini. Fiaccolata manifestazione a favore del no al referendu...

ASSEMBLEA RETRIBUITA FIOM-CGIL DI 1 ORA
GIOVEDI’ 20 GENNAIO 2011

L’Assemblea avrà come oggetto la vertenza Fiat e lo sciopero generale di 8 ore proclamato dalla Fiom-Cgil per il giorno 28 Gennaio

interverrà il segretario generale della FIOM

MAURIZIO LANDINI

SI TERRA’ NEI SEGUENTI ORARI
DALLE ORE 8.00 ALLE ORE 9.00: primo turno, centrale e impiegati;
DALLE ORE 17.00 ALLE ORE 18.00: secondo turno;
DALLE 21.00 ALLE 22.00: terzo turno.

Jesi, 12 Gennaio 2011                                      la RSU della FIOM-CGIL



COMUNICATO SINDACALE FIOM JESI

Nella giornata odierna si è tenuto un incontro tra la Direzione di Fiat CNH ITALIA e la RSU dello stabilimento dentro cui si sono affrontate le seguenti tematiche.


ANALISI PRODUTTIVA 2010
Dall’ analisi produttiva del 2010 ci sono stati comunicati i seguenti dati:
prodotti 23391 trattori, contro i 21000 del 2009 e i 33000 del 2008; dei quali il 57% destinati al mercato continentale europeo, il 12% al mercato est europeo e il restante nel mondo – in America del Nord il 13% .
I numeri dei modelli prodotti si suddividono in 9000 APL, 5000 Utility, 830 TK, 3000 Specialty e 5000 TDD.
Tutto a fronte di 47 giornate di Cassa Integrazione Ordinaria.

COMUNICAZIONE CIGO GENNAIO-FEBBRAIO 2011
Oltre a confermare la sospensione dell’attività lavorativa per il giorno lunedì 31 Gennaio, l’Azienda ha comunicato per il mese di Febbraio le seguenti giornate di Cassa Integrazione Ordinaria:
martedì 1, venerdì 11, venerdì 25 e lunedì 28 Febbraio.

DIPENDENTI DELLO STABILIMENTO
A Gennaio 2011 sono a libro paga di Fiat allo stabilimento CNH ITALIA di Jesi 935 lavoratori – 957 erano nel 2010 - , di cui 95 impiegati e il restante operai (840).

PART-TIME
A fronte dell’indiscriminato taglio dei part-time che la Direzione ha effettuato per questo inizio 2011, l’Azienda su nostra richiesta si è resa disponibile a rivedere alcune scelte che riguardano lavoratrici e lavoratori che hanno necessità individuali di orario part-time, il tutto dietro domanda scritta.

PAUSE COLLETTIVE DEI PRIMI TRATTI
E’ stata fatta inoltre richiesta , come già avvenuto nei secondi tratti, di unificare le pause collettive dei primi tratti in officina 2, nei prossimi giorni valuteremo con i lavoratori l’orario più idoneo.

Jesi, 12 Gennaio 2011                              la RSU della Fiom Cgil

LETTERA SPEDITA IL 12 GENNAIO 2011 ALLA STAMPA LOCALE DALLE DELEGATE E DAI DELEGATI DELLA FIOM-CGIL DELLO STABILIMENTO FIAT CNH ITALIA DI JESI

Dal nostro punto di vista gli accordi separati (pratica già in uso da tempo nel settore Industria) di Pomigliano e Mirafiori peggiorano drasticamente le condizioni di vita e di lavoro delle lavoratrici e dei lavoratori degli stabilimenti in questione e rappresentano una svolta drammatica e regressiva all’interno dell’intero sistema di relazioni industriali del Paese.
La cancellazione del contratto nazionale e l’estromissione della Fiom-Cgil dagli stabilimenti sono solo due dei punti nodali dell’accordo: è difficile immaginare che l’enormità di quanto sta accadendo non produrrà effetti anche sullo stabilimento di Jesi.
Se a ciò aggiungiamo il pesante riassetto produttivo e finanziario (spin-off) in atto dentro tutto il Gruppo Fiat e il fatto che Fiat non incontri a Jesi le organizzazioni sindacali dal 19 Luglio scorso, appare ad oggi incerto che tipo d’impegno produttivo e occupazionale l’Azienda intenda mettere sullo stabilimento jesino nei prossimi anni e a quali condizioni.
Troppe domande insomma senza risposta.
A fronte di tutto ciò sarebbe auspicabile da parte della stampa locale e delle forze politiche un’attenzione più di sostanza e magari meno celebrativa, rispetto ai dubbi che vertono sul futuro delle lavoratrici e dei lavoratori di Jesi.
Altrettanto auspicabile sarebbe l’apertura di una discussione all’interno del contesto jesino tra forze politiche,sindacali, lavoratori e la cittadinanza sulla vertenza Fiat e su quanto ci riguarda.
E’ per questo che per il doppio appuntamento del 20 Gennaio al centro sociale TNT di Jesi alle ore 21 che vedrà la presenza del segretario generale della Fiom Maurizio Landini (che nello stesso giorno terrà un’assemblea in fabbrica) e dello sciopero generale del settore metalmeccanico indetto dalla Fiom nazionale per il 28 Gennaio, è richiesto il massimo sforzo da parte di tutti.


I delegati e le delegate della Fiom-Cgil dello stabilimento Fiat-CNH di Jesi

Jesi,12 Gennaio 2011

La costituente Fiat (di Marco Revelli)

In città si stanno moltiplicando i negozi con la vistosa insegna gialla «Compro oro». Erano pressoché sconosciuti fino a un paio di anni fa, ora crescono come funghi: appena un paio in centro, gli altri - decine - nelle ex barriere operaie, Borgo San Paolo, Barriera di Milano, Mirafiori sud... Acquistano tutto, anche le protesi dentarie. D'altra parte Torino ha fatto segnare nel 2010 il non invidiabile primato nella crescita dei pignoramenti di alloggi, con un +54,8% nei primi dieci mesi dell'anno rispetto al già duro 2009. E si calcola - sono dati impressionanti - che un 35-40% dei lavoratori metalmeccanici torinesi abbia fatto ricorso, nell'ultimo biennio, alla cessione del quinto dello stipendio, per pagare le rate in sospeso, o semplicemente per arrivare alla fine del mese.


È su questa Torino, su questo tessuto sociale allo stremo, che ha calato la scure del suo Diktat Sergio Marchionne, dall'alto del suo ponte di comando globale e dei suoi quattro milioni e mezzo di euro di stipendio annuo, quattrocentotrentacinque piani più sopra rispetto al reddito annuo di ognuno di quegli uomini e quelle donne che a Mirafiori - nel luogo in cui sono inchiodati per la vita o per la morte - dovranno domani votare se «arrendersi o perire». Più di novemila volte più in alto - una distanza stellare - se si considera anche il valore delle stock options accumulate, valutabili con un calcolo minimale intorno ai 100 milioni... Come faccia uno come Eugenio Scalfari a scrivere che non si tratta di ricatto ma di semplice «alternativa» è difficile da capire. Ma ancor più difficile da capire - loro non vivono come lui in un mondo rarefatto di letture e poteri - è come facciano a negarlo i sindacalisti che quell'accordo hanno siglato. E che non possono ignorare l'asimmetria abissale, il divario incolmabile che separa e distanzia le due parti contraenti segnando, appunto, la differenza tra un ricatto (a cui il destinatario non può sottrarsi senza rinunciare a una parte essenziale di sé), e un'alternativa, in cui in qualche modo la scelta è libera.

Ora è proprio in questo divario, in questa asimmetria assoluta che nella chiacchiera superficiale, politica e giornalistica, viene solitamente invocata per sostenere la necessità di accettare l'Accordo, la natura scandalosa dell'evento. Il fattore che rende quell'accettazione inaccettabile. E che sottrae la vicenda Fiat alla dimensione specifica di una «normale» vertenza sindacale per farne una questione etica e politica di rilevanza generale: un evento di natura «costituente». Perché quando in una società si crea un dislivello simile, quando le distanze tra parti sociali essenziali crescono a tal punto da costringerne una al silenzio e all'umiliazione, vengono meno le condizioni stesse di una normale vita democratica. Quando il principio di Uguaglianza viene a tal punto trasgredito, anche termini come Libertà e Giustizia perdono di significato, per assumere il volto tetro dell'arbitrio del più forte e dell'uso vessatorio delle regole.

Basta, d'altra parte, leggere le 78 cartelle in A4 della bozza di Accordo, diligentemente siglate pagina per pagina dalle parti contraenti, per rendersi conto della sproporzione tra le forze. 
Ognuna di esse trasuda, letteralmente, «asimmetria». A cominciare dalla «Clausola di responsabilità» che fa da preambolo, senza neppure uno straccio di accenno agli impegni assunti dall'Azienda per la realizzazione del «piano per il rilancio produttivo dello stabilimento di Mirafiori Plant», e invece minuziosamente precisa (direi minacciosa) nel sottolineare gli obblighi degli altri, con quelle due righe sul «carattere integrato dell'Accordo» per cui la trasgressione (collettiva o anche individuale) di uno solo degli impegni assunti costituirebbe un'infrazione grave, tale da fare decadere tutti i diritti acquisiti dalle organizzazioni sindacali contraenti... Per non parlare della procedura scelta dalla Fiat Group Automobiles per sfilarsi dall'accordo del '93 e dai vincoli del contratto nazionale dei metalmeccanici - per «far fuori» la Fiom! - con l'espediente della newco, in clamorosa violazione del dettato del nostro codice civile (art. 2112) in materia di «Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda» ... Come se, appunto, l'onnipotenza aziendale potesse prevalere su ogni normativa pubblica, nella stessa misura in cui le regole stipulate a livello d'impresa devono servire a null'altro che a sancire la volontà di potenza del vincitore.

Oppure si consideri il primo punto della «Regolamentazione per la Joint Venture», sull'Orario di lavoro. Dice che la proprietà potrà scegliere tra un ampio ventaglio di opzioni - «schemi» li chiamano - con una sorta di menu à la carte nel quale vengono ricombinate le vite dei lavoratori: 15 turni (8 ore su tre turni, mattino, pomeriggio e notte, per cinque giorni la settimana); oppure 18 turni (8 ore su tre turni per sei giorni la settimana, quindi compreso il sabato); oppure, ancora, in via sperimentale, 12 turni (ognuno di 10 ore giornaliere, due turni al giorno per sei giorni la settimana). Nei casi in cui l'orario settimanale superi le 40 ore, è previsto un recupero giornaliero la settimana successiva, ma esso è puramente teorico dal momento che l'Accordo prevede anche 120 ore di straordinario obbligatorio (aumentabili fino a 200), a disposizione dell'azienda che le potrà utilizzare per saturare in periodi di picco nella produzione anche i periodi di riposo infrasettimanale. Le pause, a loro volta, saranno ridotte da 40 a 30 minuti, tre per turno, in ognuna delle quali il lavoratore dovrà scegliere se andare in bagno, sedersi un attimo per prendere fiato o tentare di addentare uno sneck (dal momento che la pausa mensa potrà essere spostata a fine turno e lavorare otto ore in piedi senza soste e senza mettere nulla in corpo non è sopportabile). In compenso la riduzione delle pause sarà compensata con un controvalore di 32 euro al mese, circa un euro al giorno (più o meno quanto si dà a un lavavetri al semaforo).

Dentro questa griglia ci sono le vite di alcune migliaia di uomini e di donne. Ci sono centinaia e centinaia di famiglie, con la loro organizzazione spaziale e temporale, con la loro rete di relazioni, con le loro concrete esistenze. Ci sono, appunto, delle «persone»: c'è il loro «tempo di vita», divenuto una sostanza spalmabile a piacere dall'impresa sulle proprie catene di montaggio, tra i pori del proprio «tempo di saturazione» (quello che divide l'ora in 100.000 unità di tempo micronizzato, secondo i dettami della nuova «metrica del lavoro»), a seconda di ciò che comanderà, momento per momento, il mercato. E dobbiamo chiederci, a questo punto, quale concezione del mondo stia dietro a questa visione. Quale idea di uomo (di «persona umana») e di società ispiri un tale progetto. E se l'argomento «definitivo» - quello con cui si taglia ogni discorso, si mette a tacere ogni obiezione - della «globalizzazione» e dei suoi impersonali dogmi sia sufficiente a giustificare una tale macelleria sociale ed esistenziale.

Ecco perché la «sfida» lanciata da Marchionne non è una «questione privata». Non può cioè essere limitata al rapporto tra la Fiat e il «suoi» operai (e non dovrebbe essere affidata solo al voto «con la pistola puntata alla tempia», di quegli operai che non devono essere abbandonati a se stessi), ma riguarda tutti noi, in quanto cittadini. Riguarda l'orizzonte in cui ci troveremo a vivere nei prossimi anni. Non è uno strappo contingente alle regole. È uno tzunami, che scardina le basi stesse del sistema di relazioni industriali e, più in generale, del nostro ordine sociale e produttivo. L'hanno sottolineato i più autorevoli osservatori non vincolati da obblighi di carattere servile, da Carlo Galli (in un lucidissimo articolo su Repubblica) a Ulrich Beck, uno che di «società globale» se ne intende. Farebbero bene ad accorgersene anche i nostri «re tentenna» del partito democratico (quanto filisteismo c'è nel Fassino che dice «se fossi un operaio voterei sì»), e quanti pretendono di esercitare funzioni di rappresentanza.

Se dovessimo accreditare l'idea della globalizzazione che da quel «fatto compiuto» si manifesta - se dovessimo davvero attribuire a quel sistema impersonale di vincoli carattere d'inderogabilità e alle sue ricadute sui territori natura di nuova «costituzione materiale» - allora dovremmo rivedere tutti i nostri concetti portanti: di cittadinanza, di democrazia, di legittimazione e di diritto. Così come se dovessimo ritenere inaggirabile quell'ukase - se ai lavoratori non dovesse più rimanere altra alternativa che quella tra la perdita del posto o l'accettazione di una condizione esplicitamente servile del proprio lavoro, se il lavoro conservato dovesse rivelarsi irrimediabilmente incompatibile con diritti e dignità -, allora non ci resterebbe davvero che organizzare un esodo di massa, fuori dalle mura dentate delle fabbriche, lontano dallo stato di «salariato». Oltre, davvero oltre, la modernità che abbiamo conosciuto e che non era fatta di asservimento e subalternità (come vorrebbero i nostri «modernizzatori» tardivi), ma di conflitto e di diritti faticosamente contesi.

Conferenza stampa Fiom del 10 Gennaio

lunedì 10 gennaio 2011


Cremaschi: Sì, quello di Marchionne è fascismo aziendale


 Ma davvero bisogna abbassare i toni e non usare la parola fascismo per definire quanto sta avvenendo a Mirafiori, a Pomigliano, in Fiat? In tanti hanno considerato una forzatura l’uso di questa parola. Ma che scherziamo? Questa sarebbe la dimostrazione che chi si oppone all’accordo di Mirafiori è fuori dal tempo e dalla storia.

Vediamo allora in concreto cosa succederà a Mirafiori se si applica l’accordo. Oltre a danni drammatici alla condizione di lavoro e a tutti i loro diritti, i lavoratori perderanno le libertà sindacali. Gli unici sindacati ufficialmente ammessi in azienda saranno quelli firmatari dell’accordo, i quali avranno diritto a una rappresentanza sindacale da essi nominata. Quindi la Fiom e tutti coloro che si oppongono all’accordo saranno esclusi dalla rappresentanza sindacale che però, a sua volta, non sarà più elettiva ma di nomina dall’alto.

Ha suscitato scandalo anche l’accostamento che abbiamo fatto con l’accordo del 2 ottobre 1925 a Palazzo Vidoni. Allora il presidente del Consiglio, Mussolini, la Confindustria, i sindacati nazionalisti fascisti e corporativi sottoscrissero la fine delle commissioni interne aziendali elette dai lavoratori e il passaggio al regime dei “fiduciari” nominati dai sindacati firmatari dell’accordo. La si può girare come si vuole, ma questo è il solo precedente a cui far riferimento per l’accordo di Mirafiori che tanti definiscono storico.

Si elimina l’opposizione e si inibisce ogni reale libertà di scelta sindacale. Non solo non ci saranno più le elezioni ma i lavoratori non potranno più iscriversi alla Fiom e ai sindacati che non hanno firmato l’accordo, né potranno più tenersi libere assemblee. Come chiamare questo? Se un presidente del Consiglio decidesse che per far quadrare i conti del bilancio pubblico bisogna cancellare il parlamento elettivo e mettere fuorilegge l’opposizione, come definiremmo tutto questo? Ma si sa, la fabbrica è considerata un mondo a parte, le regole della democrazia che sono scontate quando si sta fuori dai cancelli diventano tutte opinabili quando li si varca. Così può acquisire anche una patina di democraticità un referendum che dovrebbe sanzionare la fine delle libertà a Mirafiori.

Dove trovare i precedenti storici rispetto a una consultazione che si presenta come l’ultima? Se dovesse passare il sì e l’accordo fosse davvero applicato i lavoratori voterebbero per l’ultima volta, anzi, rinuncerebbero per sempre a votare sulle proprie rappresentanze sindacali, sugli accordi, sulle condizioni di lavoro. Come definire un voto di rinuncia ai diritti democratici fondato sul ricatto della perdita del posto di lavoro? Non ricorda i plebisciti autoritari con cui tante dittature hanno messo fine alla democrazia?

E, infine, visto che questo a Marchionne non basta ancora, come giudicare il fatto che se passa il sì poi i lavoratori di Mirafiori, uno per uno, saranno licenziati dalla Fiat e riassunti nella nuova società di produzione solo se sottoscriveranno l’accettazione piena di tutte le condizioni di lavoro imposte e la rinuncia a qualsiasi rivalsa e tutela, pena il licenziamento? Che questo sia un moderno fascismo aziendale non c’è alcun dubbio. La domanda che si può porre è se l’Italia possa restare una democrazia se questo regime si diffonde in tutti i luoghi di lavoro.

Si sostiene che questo è semplicemente il modello americano. L’America è una grande democrazia, che resta tale anche se nelle fabbriche c’è il fascismo. E’ bene però ricordare che negli anni Trenta il presidente democratico Roosvelt considerava una forma di fascismo e una minaccia per la democrazia americana il governo autoritario della fabbrica di Henry Ford. Si può comunque pensare che la minaccia di Marchionne sia stemperata nella dimensione dei conflitti e dei problemi degli Usa. In Italia però non è così. Siamo un paese nel quale da quindici anni il berlusconismo destruttura la democrazia. L’assalto alle libertà sindacali di Marchionne potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso verso un sistema autoritario.

Questa è la posta in gioco in Fiat, ed è per questo che in tanti, esterni al mondo metalmeccanico e anche, per fortuna, esterni al palazzo che a destra e a sinistra si è inchinato di fronte a Marchionne, oggi sostengono la resistenza della Fiom.


 Intervista a un sindacalista americano 


 ROMA - "Sergio Marchionne recita in Italia un copione già scritto qui negli Stati Uniti. Alla Fiat si riproduce l'attacco ai sindacati che da anni è in atto nelle imprese americane. Guai a sottovalutarne la gravità: la rappresentanza dei lavoratori, l'organizzazione sindacale, sono l'ultimo baluardo contro l'imbarbarimento della società e l'impoverimento della democrazia. Anche i referendum di fabbrica sotto un clima d'intimidazione, li conosciamo bene". Peter Olney è uno dei maggiori leader sindacali americani. Dirige la Unione più potente della West Coast, Ilwu, organizza categorie che vanno dai portuali ai dipendenti dei trasporti e della logistica. E' anche un teorico con una visione globale, una sorta di Bruno Trentin americano: da giovane studiò anche Scienze politiche all'università di Firenze e ha insegnato all'università di Berkeley. La posta in gioco nel caso Fiat gli è familiare.
In Italia Marchionne sembra a suo modo un "rivoluzionario", che osa sfidare tabù consolidati, lei invece lo considera come "déjà vu"?
"Il chief executive di Fiat-Chrysler non fa che ripetere tutte le mosse dei top manager di General Motors, Ford. Il ricatto ai lavoratori usa un linguaggio a cui siamo abituati: gli operai vengono descritti come dinosauri, relitti di un'era al tramonto, costretti ad accettare i diktat dall'alto perché altrimenti poco competitivi, quindi condannati a perdere il posto. In quanto
ai referendum sotto ricatto, di recente se n'è tenuto uno alla fabbrica della Nissan nel Tennessee, per decidere proprio sulla questione della rappresentanza sindacale. Dopo una campagna di pressioni, minacce, intimidazioni da parte dell'azienda, i lavoratori hanno finito per piegare la testa e votare contro il sindacato. Oggi il sindacato americano riparte proprio da questo: vogliamo imporre un codice di condotta, che impedisca alle aziende di impaurire i lavoratori manipolando le consultazioni referendarie".
Tra i metalmeccanici americani il sindacato ha perso terreno paurosamente. In che misura paga l'effetto delle delocalizzazioni?
"Noi le delocalizzazioni le abbiamo addirittura in casa. La minaccia più concreta non è il trasferimento di fabbriche all'estero, ma in quegli Stati Usa del Sud dove viene impiegata solo manodopera non sindacalizzata, a condizioni nettamente peggiori. Tra il 1993 e il 2008 il Michigan, culla storica dell'industria automobilistica, ha perso 83.000 metalmeccanici. Nello stesso periodo il Tennessee ne ha guadagnati 91.000. Toyota, Hyundai, Volkswagen hanno scelto gli Stati della "cintura nera meridionale", South Carolina, Mississippi, Tennessee, per tagliar fuori il sindacato. United Auto Workers, la confederazione dei metalmeccanici, è scesa da un milione di iscritti 30 anni fa a 400.000 oggi. Nell'ultima recessione l'Uaw ha dovuto accettare salari dimezzati, da 30 a 14 dollari orari per i nuovi assunti. E' il modello che Marchionne sta importando da voi".
Ma la dottrina Marchionne ha dalla sua una sorta di ineluttabilità. Con la globalizzazione, è insostenibile la sopravvivenza di fabbriche che non reggono i confronti internazionali. Chi fa l'interesse degli azionisti prima o poi dovrà chiuderle e trasferire la produzione altrove.
"Se io ho studiato nelle stesse Business School dei top manager, è anche perché ero stanco di subire l'egemonia culturale di queste analisi. Le decisioni sulla localizzazione degli stabilimenti sono nella realtà più complesse di quanto vogliano farci credere. Soprattutto in settori ad alta intensità di capitale, con tecnologie sempre più sofisticate, i differenziali salariali non sono il criterio decisivo. Entrano in gioco altri fattori: l'accesso ai mercati nazionali, la disponibilità di infrastrutture, la qualità dei centri di ricerca e design. Infine una parola passata di moda: le politiche industriali dei governi. In Occidente parlarne oggi sembra una follìa? Però il governo cinese la politica industriale la fa, eccome".
Al di là del settore metalmeccanico, quanto è grave il declino del sindacato in America? Con quali conseguenze politiche?
"Nel 1955 le Unions organizzavano il 35% della manodopera delle imprese private, oggi siamo appena al 7%. I sindacati sono anzitutto un fattore di redistribuzione, così è caduto ogni argine alle diseguaglianze sociali. Nel 1955 un chief executive guadagnava 25 volte più del suo operaio, oggi guadagna 450 volte il salario operaio. Conseguenze politiche: nel 2008 Barack Obama ha avuto uno scarto del 18% in più tra i lavoratori sindacalizzati. L'appartenenza sindacale, con quel che significa in termini di diritti di cittadinanza, porta con sé una visione del mondo, un sistema di valori. Senza sindacato la società diventa una clessidra: in alto si concentra il potere, in basso c'è un vasto esercito di lavoratori impoveriti e impotenti, viene a mancare un centro".