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sabato 25 settembre 2010

WCM: Il modello Pomigliano è solo l'inizio


Sui siti della Fiat è indicato che per riorganizzare le sue fabbriche l'azienda fa ricorso al World Class Manufacturing (Wcm), nato - si dice con grande enfasi - dalla collaborazione con i migliori esperti europei e giapponesi. I principi organizzativi del Wcm ruotano intorno all'assunto che per raggiungere l'obiettivo del miglioramento continuo della qualità dei prodotti non sono decisive la tecnologia o le tecniche di produzione, bensì il talento dei lavoratori che devono essere in grado di gestire macchine e processi.
Ecco perché - ed è la vera e profonda innovazione rispetto alla catena di montaggio taylorista - gli operai addetti alle linee devono avere la possibilità di prendere decisioni a livello operativo sulla base dei dati riguardanti i processi di cui sono responsabili. In buona sostanza gli operai possono anche fermare la linea se rilevano un livello di qualità inaccettabile. Il gesto che nella fabbrica fordista era il segno di un punto alto di scontro tra lavoro e gerarchia di fabbrica ora diventa parte del processo di miglioramento continuo della competitività dell'impresa. Per dare avvio al Wcm serve una profonda formazione: gli operai devono essere preparati alle tecniche di gruppo ed alla soluzione dei problemi; i capi devono acquisire un ruolo di influenza/consulenza anziché di autorità e di controllo; gli ingegneri avranno bisogno di un aggiornamento continuo per fronteggiare la rapida evoluzione dei prodotti e dei processi produttivi. Sembra così descritta la prima fase del Marchionne «innovatore» che ferma Pomigliano ed avvia il processo di formazione, discutendo con il sindacato.
Il seguito del processo Wcm deve, però, risolvere il problema che la struttura organizzativa richiede partecipazione, ma anche identificazione totale dei lavoratori con l'azienda. Soprattutto si deve instaurare un rapporto di fiducia tra management ed operai: una volta che l'alta direzione ha definito gli obiettivi strategici deve comunicarli all'intera forza lavoro e coinvolgerla direttamente nel loro raggiungimento. Questa è la seconda fase di Pomigliano, del «prendere o lasciare» al posto della trattativa sindacale, perché nel sistema Wcm lo spazio del sindacato è solo quello di «preservare la competitività dell'impresa e quindi i posti di lavoro». Qui sta il punto: per avere operai «partecipativi» e «combattenti» (soldati di prima linea nella competizione globale) occorre che in fabbrica non ci sia più un sindacato autonomo e con una visione generale dei problemi del lavoro tramutata in diritti e garanzie nel contratto nazionale di categoria. Deve venir meno ogni capacità di controllo sull'organizzazione del lavoro, processo del resto già pericolosamente in atto nel nostro sistema produttivo. Una ricerca realizzata nel 2005 tra le Rappresentanze sindacali unitarie operanti in 130 imprese industriali lombarde, a fronte di cambiamenti nella produzione o nel lavoro, segnalava che le innovazioni erano state gestite nella maggior parte dei casi in modo unilaterale dal «management» collocando il sindacato in un ruolo puramente difensivo, di rincorsa al cambiamento della professionalità e delle competenze di lavoratori.
«Se una fabbrica non è governabile - come chiarisce Marchionne - non ha senso parlare di produzione». In buona sostanza la condizione dei cambiamenti nell'organizzazione del lavoro è la sconfitta del sindacato che permette all'impresa di gestire in modo unilaterale sia schemi partecipativi che intensificazione del lavoro. Pomigliano è solo l'inizio: è un messaggio chiaro, che la Fiom ha ben recepito. Dice a Cisl e Uil che non c'è spazio nemmeno per loro, perché la partecipazione è in «via gerarchia» e non deve interessare il sindacato, che deve solo garantire l'azienda nella realizzazione dei suoi obiettivi. Sfida però anche la Cgil sul terreno della sua autonoma capacità di iniziativa e proposta. Come nel 1983 la Fondazione Agnelli teorizzò che la competizione globale imponeva alle imprese un nuovo modo di lavorare e produrre e per questo occorreva imparare la lezione del '68 (dall'operaio polivalente al gruppo omogeneo), ora spetta alla Cgil (e alla sinistra politica, se vuole uscire dalla sua insignificanza) dimostrare che la centralità del lavoro nei processi produttivi e nella società non è possibile se non si parte da una riconquistata ed innovata capacità di contrattare e da un rafforzamento del ruolo dei delegati e della democrazia sindacale.

La madre di tutte le (contro) riforme di Antonio Lettieri



E’ quella che minaccia di cancellare la contrattazione nazionale, cosa che comporterebbe la rottura del patto sociale di base che riconosce il soggetto collettivo più debole del conflitto. Forse la legislatura è entrata nella sua fase finale, ma il rischio è che si lasci alle spalle un cumulo di rovine


Può essere che la legislatura sia ormai entrata nella sua fase finale. Sarà una fine ingloriosa quanto auspicata nella misura in cui libererà il paese da un governo che non ha confronti nel mondo occidentale. Insieme di destra, populista, illiberale e, soprattutto, un permanente attentato alla Costituzione democratica. Ma, attenzione. Il senso di liberazione rischia di rivelarsi tanto giustificato quanto ingannevole. E’ un  governo che minaccia di lasciarsi alle spalle un paese agonizzante, senza crescita e con una disoccupazione che può esplodere con l’esaurimento progressivo della Cassa integrazione, con la scuola in disarmo, col Mezzogiorno ricacciato nel Terzo mondo.Ma anche questa diagnosi, per quanto allarmante e impietosa, rischia di essere incompleta e perfino fuorviante. Ciò che sta accadendo in questi giorni è la  cosa più grave fra tutte. E’ l’apertura di un processo che minaccia una catena di conseguenze strutturali e di lungo termine che per molti versi potrebbe rivelarsi irrimediabile. E’ l’annuncio della disdetta del contratto nazionale dei metalmeccanici. Non una (contro)riforma fra le altre, un episodio contingente di scontro di classe e l'articolazione di un normale conflitto sociale, che la crisi tende a esasperare. La fine minacciata della contrattazione nazionale, anche se velata da artifici lessicali, è la madre di tutte le controriforme. E’ La rottura del patto sociale di base che riconosce il soggetto collettivo più debole del conflitto sociale. E’ lo svuotamento della solidarietà collettiva come base di auto-riconoscimento, di identità storica, di capacità negoziale nella difesa dei diritti, delle libertà e delle tutele, attraverso la “voce” collettiva di tutti.
Il collegamento di una parte del salario alla produttività o, in termini più generali, alle condizioni di lavoro che differenziano un’impresa dall’altra – la contrattazione articolata a livello di azienda – fa a pieno titolo parte del sistema duale della contrattazione italiana. Ed è, con variazioni secondarie, il modello contrattuale prevalente nelle relazioni industriali vigenti in Europa. Insieme con gli elementi essenziali del welfare, la solidarietà che si esprime nella contrattazione collettiva nazionale di categorie, è l’asse portante del modello sociale europeo. 
Dove, al contrario, come nel sistema americano, la contrattazione aziendale svolge un ruolo non integrativo ma sostitutivo del contratto nazionale, essa assume caratteristiche radicalmente diverse. La natura fondamentalmente unitaria della contrattazione si dissolve nella frantumazione dei diritti, delle tutele, degli elementi di base della condizione salariale in rapporto alla quantità e alla qualità della prestazione lavorativa.

Marchionne non inventa nulla. Vuole semplicemente importare, adottando una strategia ricattatoria, facilitata dal consenso del governo, il modello americano. Quello in base al quale il sindacalismo americano che rappresentava negli anni 70 un quarto della forza lavoro, si è ridotto a una rappresentanza del 12 per cento complessivo che, nel settore privato, scade all’otto per cento dei lavoratori. Come dire che oltre il novanta per cento dei lavoratori dei settori industriali e dei servizi è privo di rappresentanza e di potere negoziale. Un modello distruttivo degli equilibri sociali. Una delle componenti fondamentali dell’esplosione della diseguaglianza sociale che è all’origine della crisi corrente ben prima della crisi finanziaria.
Tra le giustificazioni di questa politica reazionaria, nel senso proprio di ritorno agli inizi del secolo XX, si porta il processo di globalizzazione. Ma la globalizzazione agisce in senso profondamente diverso secondo le politiche industriali e del lavoro che i diversi paesi adottano. Gli Stati Uniti ne sono l’emblema inconfutabile. Nel paese del neoliberismo rampante, l’industria manifatturiera è stata scompaginata e quella automobilistica, che ne era l’emblema, è stata portata al collasso. Come testimonianza rovesciata abbiamo l’industria tedesca, la più efficiente e competitiva del pianeta, con al centro l’industria metalmeccanica – e nel suo ambito l’auto – i cui lavoratori sono riuniti nella IG Metall, il più grande e il più potente sindacato di categoria dell’occidente. La globalizzazione è tanto una realtà quanto un alibi. Esige più regole, più politica, più riconoscimento dei soggetti collettivi, più partecipazione e non meno. Non annulla il conflitto sociale, ma impone di assumerne piena consapevolezza per stemperarlo in una strategia di avanzamento attraverso il riconoscimento dei diritti e dei bisogni fondamentali.

Tony Judt, uno dei più influenti storici e intellettuali contemporanei, nel suo ultimo libro (Ill Fares the Land) –  pubblicato pochi mesi prima della sua morte prematura, nello scorso agosto, scriveva: “Le società sono complesse e comprendono interessi in conflitto. Asserire il contrario – negare distinzioni di classe o di ricchezza o di influenza –è semplicemente un modo di promuovere un gruppo di interessi contro un altro. In passato si trattava di una proposizione auto-evidente; oggi siamo spinti a ripudiarla come un incoraggiamento all’odio di classe” (traduzione di chi scrive).Una lezione, questa, che dovrebbe essere meditata e tenuta presente da chiunque è schierato (o pensa di essere schierato) a sinistra nel campo della difesa del lavoro e del progresso sociale. A partire dal sindacato, la cui divisione non può trovare alcuna giustificazione, se non in una vocazione suicida. Come non trova nessuna giustificazione la sostanziale indifferenza di una grande parte della sinistra, quando non si tratti dell’aperta condivisione, di una parte dei suoi più vociferanti consiglieri.