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domenica 27 marzo 2011



di Giorgio Cremaschi
Alla vigilia dell'assemblea nazionale dell'area programmatica ritengo utile diffondere queste mie valutazioni, anche perchè ritengo che quell'appuntamento debba essere chiarificatore.
“La Cgil che vogliamo” così come è oggi non ha un peso e una funzione corrispondente al senso e alle dimensioni della battaglia congressuale. La nostra è un'area in evidente crisi politica e organizzativa  e prima di doverne constatare il precipitare definitivo è bene affrontare la situazione.


Siamo in una fase politicamente e socialmente costituente, cioè tutto quello che abbiamo affrontato un anno fa al congresso è oggi radicalmente cambiato. Le vicende sindacali iniziate con Pomigliano e poi ora quelle politiche sociali e civili avviate dalla guerra in Libia hanno determinato assieme una nuova fase, sia a livello delle organizzazioni sindacali, sia a livello del quadro politico. (...)
L'offensiva di Marchionne è dilagata in tutta la contrattazione e ha travolto il contratto nazionale. La nuova guerra umanitaria ha prepotentemente ricostruito legittimità all'utilizzo dell'intervento militare da parte del mondo occidentale. In entrambi questi due casi la stragrande maggioranza del Parlamento, l'unanimità sulla guerra, ha condiviso le scelte più brutali e radicali.


Di fronte a tutto questo è evidente la crisi politica e identitaria della Cgil, che da un lato tende sempre più a schiacciarsi sull'opposizione politica, salvo poi essere costretta dalla situazione a scelte che la mettono ai margini anche di questa.
La segreteria della Cgil ha più volte affernati che la linea di Marchionne era isolata. Ha più volte tentato il dialogo con la Confindustria e la composizione unitaria con Cisl e Uil. Ogni volta il risultato è stato quello di nuovi accordi separati, nel pubblico impiego, nella scuola, nel commercio. Questo non ha però portato a una revisione dei comportamenti e della linea politica. I due ultimi accordi sottoscritti sulla flessibilità, nel nome delle donne, e sulla detassazione dei premi aziendali sono una pura accettazione delle posizioni del governo e della Confindustria.
In questo contesto anche lo sciopero generale è stato proclamato senza alcuna convinzione e, in ogni caso, in pura continuità con gli scioperi del passato contro il governo e non contro il sistema delle imprese. Infine con la guerra, ancora una volta, la Cgil ha assunto una posizione di sostanziale appoggio all’intervento militare.


In questa situazione, con un accentuarsi anche della crisi operativa e burocratica della Cgil nelle categorie e nei territori, la nostra area programmatica non ha sinora dato il segno di essere una forza in grado di costruire una efficace battaglia politica per un’alternativa.
Molti limiti vengono dalla stessa storia dell’area programmatica. E’ inutile però continuare a riproporli perché oramai è la nuova realtà che ci impone un cambiamento profondo. Sinora, la nostra area è stata in generale posta ai margini della vita della Cgil, in molti casi è stata messa all’opposizione, ma non è stata in grado di esercitare una vera opposizione. Così è toccato alla Fiom il compito di rappresentare un modello sindacale alternativo a quello della maggioranza della confederazione. La Fiom non è stata solo un riferimento interno al sindacato ma un vero e proprio riferimento per l’opposizione sociale. Se non vogliamo isolare i metalmeccanici in queste scelte tocca a tutta l’area programmatica farle proprie ed estenderle.
Ora che si aprono nella maggioranza primi segnali di una nuova dialettica è ancor più necessario definire le caratteristiche e gli obiettivi dell’area, altrimenti c’è il rischio di essere assorbiti dentro la dialettica che si è aperto all’interno della maggioranza congressuale.


Per queste ragioni fondamentali, a cui molte altre particolari potrebbero essere aggiunte, per l’area programmatica è necessario un nuovo inizio, sia sul piano dei contenuti, sia su quello delle scelte e dei comportamenti, sia su quello delle pratiche organizzative. I punti salienti sui quali caratterizzare le nostre scelte sono:


1.    No alla guerra in Libia come a tutte le guerre “democratiche e umanitarie”, con la conseguente battaglia politica nella Cgil per affermare questa posizione o per esprimere il dissenso nel caso in cui la maggioranza non la faccia propria.


2.    Radicalizzazione del conflitto sociale dopo la svolta autoritaria impressa da Marchionne a tutto il sistema delle relazioni sindacali. Questa scelta deve essere il punto centrale di una battaglia perché la Cgil nel suo insieme scelga una linea di conflitto con Confindustria, il sistema delle imprese, le controparti pubbliche. Conseguentemente occorre che l’area programmatica, in tutte le categorie e in tutti i territori, persegua questa linea.


3.    Presa d’atto dell’impossibilità di ripristinare l’unità con Cisl e Uil e della necessità di una nuova pratica rivendicativa democratica della Cgil. Occorre costruire una nuova unità nei luoghi di lavoro che coinvolga tutte e tutti coloro che vogliono lottare contro il modello Marchionne. Occorrono pratiche di democrazia sindacale che saltino i veti di Cisl e Uil e giungano comunque al rapporto con i lavoratori. Occorre ricostruire una politica confederale comune di tutte le categorie alternativa al modello sindacale proposto da Cisl e Uil. In questo senso bisogna battersi affinché già il prossimo Primo maggio venga messa in discussione la sterile e controproducente pratica delle iniziative Cgil, Cisl e Uil.


4.    Occorre elaborare una nuova piattaforma sindacale che affronti la crisi economica sociale e quella della democrazia con precise proposte e rivendicazioni per un altro modello di sviluppo. Intervento pubblico nell’economia, messa in discussione dei vincoli europei, cambiamento delle condizioni di lavoro e riduzione degli orari, autonomia e libertà contrattuale, redistribuzione della ricchezza devono essere i punti da cui partire per questa nuova piattaforma.


5.    Occorre una rifondazione democratica dell’organizzazione sindacale che restituisca potere e partecipazione ai lavoratori, agli iscritti, ai rappresentanti aziendali.


6.    L’area programmatica deve aprirsi a tutti i movimenti sociali e civili, deve partecipare alle nuove iniziative dell’opposizione sociale, contribuire ad estenderne la funzione e il peso.


7.    Va aperta una battaglia a fondo sull’autonomia e sull’indipendenza della Cgil dall’opposizione politica e in particolare dal Partito Democratico.




Ritengo che questi 7 punti siano costituenti del nuovo inizio dell’area. Un’area programmatica non è un’organizzazione. Vive di un sentire comune sulle questioni di fondo. Se questo viene meno, non ha senso proporre discipline che, tra l’altro, sono anche contrarie allo Statuto della Cgil.


Per tutte queste ragioni ritengo che o troviamo assieme una reale condivisione sulle scelte di fondo, oppure, se verifichiamo che questo non è possibile, dobbiamo prendere atto che una fase si è conclusa. E’ inutile continuare a proclamare l’esistenza di un’area senza perimetro, quando rischiamo di avere un perimetro senza area.


La mia proposta è che, nel caso in cui non si trovi una reale condivisione su queste scelte di fondo, sia necessario prendere atto delle diversità e definire una condizione di convivenza comune che non danneggi nessuno.
Credo che si debba utilizzare la revisione statutaria che, se pur fatta con cattive intenzioni, nei fatti oggi definisce una diversità di pratiche che è nella realtà. C’è la minoranza congressuale, nella quale tutti ci identifichiamo e dobbiamo continuare a identificarci, anche per correttezza democratica tra un congresso e l’altro, e c’è l’area programmatica. Quest’ultima ha senso solo se definisce un’azione organizzata nei territori, nei luoghi di lavoro, tra i lavoratori e i cittadini. Senza una proiezione esterna, senza le assemblee, i volantini, le iniziative che esprimono il dissenso e la diversità di posizioni rispetto alla maggioranza della Cgil, l’area programmatica non ha alcun senso.


Per queste ragioni ritengo che si debba trovare un equilibrio tra chi di noi preferisce muoversi secondo comportamenti da minoranza congressuale e chi vuole organizzare, come io penso sia necessario, un’area di opposizione che arrivi fino ai luoghi di lavoro. L’unico modo è quello di assumere una forma federativa nella quale dentro la minoranza congressuale, che manterrà una sua struttura comune nei confronti della maggioranza in particolare rispetto alle composizioni dei gruppi dirigenti, si possano liberamente sviluppare aree e gruppi organizzati con una propria pratica.


Dopo molte volte nelle quali abbiamo tra di noi detto che bisognava rilanciare l’area organizzata e dopo altrettante volte nelle quali abbiamo verificato  che questo non avveniva, credo che questa sia l’unica soluzione che impedisca la pura rottura tra di noi.
Riconosciamo le diverse pratiche, manteniamo la nostra unità congressuale nei confronti della maggioranza sui gruppi dirigenti, e poi ognuno sia libero di fare le pratiche che ritiene più giuste.

venerdì 25 marzo 2011

giovedì 24 marzo 2011

L'INDISPONIBILE AUTONOMIA DEL LAVORO di Rossana Rossanda dal Manifesto

  • «Ritorno di Fiom», un libro di Gabriele Polo per manifestolibri. Le sfide del sindacato metalmeccanico dopo la sconfitta operaia e il ritorno di fiamma del capitalismo liberista. Ma anche un'organizzazione operaia che fronteggia, spesso da sola, la ristrutturazione dei processi produttivi e una cancellazione di diritti incomprimibili dal mercato, spazi di autonomia e rappresentanza diretta nelle fabbriche

  • Ritorno di Fiom di Gabriele Polo (manifestolibri, pp. 125, euro 14) è un solitario libretto controcorrente. Molto importante perché non si limita a raccontare l'epopea dei Cipputi dal 1994 ad oggi: le tre interviste ai segretari della Fiom che si sono succeduti da allora, Claudio Sabattini, Gianni Rinaldini e Maurizio Landini sono inserite nel processo di declino subìto in Italia della idea del «lavoro» come valore sociale e del «lavoratore» come portatore di diritti non comprimibili dal «mercato». 
    Era stata una chiave dell'Italia del dopoguerra e pareva l'ovvia conseguenza della democrazia che finalmente incontravamo. Era stata essa a far uscire vittoriosi i lavoratori dai primi anni della «ricostruzione», che era stata stata prima di tutto una brutale ristrutturazione dell'industria bellica. Acciaio e cementi - casa, automobili, elettrodomestici - mutamenti nella proprietà, passaggio del paese da agricolo a industriale, grande migrazione dal sud al nord, non avevano soltanto rovesciato come un guanto l'Italietta, fatto prosperare l'economia e crescere i cervelli, ma sostenuto una sinistra politica e sindacale che negli anni sessanta non aveva pari in Europa. Un grande '68 studentesco si era prolungato nel 1969, anch'esso unico in Europa, una straordinaria stagione di lotte di fabbrica alla conquista non solo di salari ma di una normativa, di spazi di autonomia e di rappresentanza diretta, che parevano acquisiti per sempre. Tanto che gli anni '70 fecero dell'operaio in tuta blu e della fabbrica il simbolo dell'intera società capitalista. 
    Era una forzatura ideologica postsessantottina? Forse. Il verticalismo del comando sociale - dalla università agli ospedali, dai giornali e fin nell'esercito e alle «istituzioni totali», carcere e manicomio - parevano avere radice nella fabbrica dove l'operaio diventava non più che «accessorio vivente alla macchina». E del suo conflitto, perché accessorio ma «vivente», vivente dunque dotato di coscienza, sola «merce» in grado di dirsi «Ma no, io non sono una cosa, un uomo è un uomo» e ribellarsi a questa condizione. Questo operaio era stato il filo rosso del secolo. In Italia il suo partito aveva animato più di qualsiasi altro la resistenza e dagli anni cinquanta in poi faceva del paese il laboratorio sociale più avanzato d'Europa. Nel quale, dopo il '69, la categoria industriale per eccellenza, i metalmeccanici, avrebbero spezzato i confini delle confederazioni Cgil, Cisl e Uil per congiungersi nell'unica Flm (Federazione lavoratori metalmeccanici), trainante a sinistra.
    * * *
    Che cosa è tornato a dividerla? E a costringere la Fiom a ricominciare daccapo, a quello che Polo chiama un «ritorno»? Due processi. Uno l'effettivo ritorno di fiamma del capitalismo liberista dei von Hayek che pareva defunto e risorgeva aggressivamente attaccando la versione keynesiana dei Trenta Gloriosi - era l'affermazione di Thatcher e di Reagan contemporanea al declino inesorabile dell'Urss. L'altro processo di natura soggettiva: il ritardo a capirlo della sinistra storica e il suo chiedersi, specie col fallimento dell'Urss, se non avesse sbagliato tutto, e il salto della sinistra radicale che, avendo intuito prima la nuova aggressività del capitale, da una parte denunciava ogni «compromesso» col medesimo, dall'altra vedeva nell'operaio di fabbrica a contratto a tempo indeterminato il nemico sia della libertà di un lavoro autonomo, detto di seconda generazione e reso possibile dal mercato del lavoro proprio del capitale cognitivo, sia della immensa massa a flessibilità totale destinata tendenzialmente a diventare precaria. Il Pci era al medesimo tempo il partito del compromesso politico e il garante di un proletariato classico e già in via di superamento che si sarebbe affidata allo stato facendo di fatto blocco con esso.
    L'acuirsi negli anni '70 e '80 dello scontro a tutti i livelli, fino al formarsi di una frangia armata, si sarebbe conclusa con la sconfitta di tutte le sinistre, moderate o radicali. Ma questa resta una storia da fare. Sta di fatto che il Cipputi in tuta blu passava nell'oblio a destra e a sinistra. Ancora oggi, in una proletarizzazione mondiale di figure e mansioni mai così estesa, il primo che passa si sente autorizzato a esclamare: «Ma dov'è finito l'operaio? Non esiste più». Oppure: «La Fiom? Ah si, è veterosindacalismo». Fino a dieci anni fa e al dilagare del precariato, i nuovi soggetti che l'esplosione del '68 aveva liberato - e nuovi erano veramente pur non avendo nulla a che vedere l'uno con l'altro, femminismo ed ecologia - sostenevano che «il lavoro ai giovani non interessa». Così l'iniziativa del capitale, che si decostruiva e ricostruiva mutando tecnologie e organizzazione del lavoro, riducendo e dividendo la manodopera, incrociava anche il risentimento contro un sindacato che rappresentava i «garantiti» e delle problematiche del conflitto dei sessi e della difesa della natura non capiva niente.
    Il già sacro «diritto al lavoro» si restringeva sotto la pressione del padronato verso questa o quella forma di «flessibilità», i «tempi parziali», il «just in time», il «call on job». Lo scivolare di parte del sindacato e della maggioranza della sinistra dal «lavoro», come forma del capitale, ai «lavori», mera articolazione sociologica, avrebbe frammentato al massimo, più nelle teste che nei fatti, il salariato, e ridotto del tutto la sua forza contrattuale.
    * * * 
    È in questo desolante panorama che la Fiat propone nei primi anni Novanta la suo nuovo stabilimento di Termoli. Sono passati quasi quindici anni dalla disfatta dei 35 giorni di occupazione e dalla marcia dei 40.000 a Torino. Il nuovo segretario della Fiom, Claudio Sabattini, si trova davanti nel 1994 - velenosa eredità - un accordo che fa paura, e il cui senso è «io porto occupazione in una zona disgraziata e piena di gioventù senza lavoro, voi in cambio rinunciate ai diritti che finora la vostra categoria aveva». L'aria è tale che il ricatto sembra un'occasione, ed è elogiato da tutti. A Termoli non c'è alternativa. Sabattini deve ingoiare, e ingoia. Ma si dice: «Mai più». L'anno seguente, con un convegno a Maratea, la Fiom inizia una strada che è tutta in salita nel rapporto di forza «materiale reale» e nella opinione e cultura politica.
    Sabattini diventa per i metalmeccanici, ma solo per loro, una figura mitica. Lo avevano accolto malamente a Termoli, come tutti i sindacalisti, quando aveva dovuto far accettare un accordo ormai irrimediabilmente compromesso: «La parola più gentile che ci dicevano - ricorda - era traditori». Non se lo farà dire mai più. Chi lo ha conosciuto negli otto anni che è rimato al suo posto non può dimenticare con quanta determinazione e collera affermava prima di tutto l'indipendenza della Fiom, che aveva da rispondere soltanto ai lavoratori e cercare soltanto assieme a loro il punto dove attestarsi. Loro non erano solo la gente della sua categoria: quando a Genova, durante la manifestazione degli altermondialisti, viene ucciso Carlo Giuliani, la Fiom partecipa al grande corteo di protesta; contro il parere della Cgil. «Ma questo non è più fare sindacato, è fare politica», gli si obietta virtuosamente dalle sue parti e con acrimonia dalle altre. Può darsi, il sociale diventa a un certo punto lo stesso del politico, egli ribatte - lo diventa nella sostanza, e non ha a niente che fare con l'affidamento a una istituzione altra o a un partito più o meno amici.
    Quando nel 2002 Sabattini viene colpito da un male improvviso e mortale, la segreteria della Fiom passa a Gianni Rinaldini. Diversamente da Claudio non viene dai metalmeccanici ma dalla Cgil emiliana, ne ha la ostinazione e saggezza, meno carisma ma non minore determinazione di Claudio e «tirerà» la metallurgia ogni anno su di un metro, forse due, firmando accordi e non firmando, abile nel dividere un padronato che non sempre si sente di affrontare lo scontro. Ma non ha un dubbio sulla direzione di marcia dei capitali, sul peso della mondializzazione, e quindi sull'appoggiare ogni possibile alleato nei movimenti. Sarà affar suo la battaglia della Fiat di Melfi. L'astronave, come la definisce Polo, calata dalla Fiat nel mezzogiorno, dove la Fiom sperimenterà non solo le pressioni e iniziative della proprietà, ma anche la difficoltà di far agire solidariamente fra loro dei lavoratori spaventati, non riuscirà a far muovere assieme quelli della Fiat di Termini Imerese con quelli di Melfi. Su di lui ancora più che su Sabattini piove l'accusa di «far politica» perché ricusa di anteporre la tattica del «governo amico» Prodi alle priorità del sindacato. Quando il segretario della Cgil Epifani accetta il «collegato lavoro» di Prodi, pena causarne la caduta, compie l'errore definitivo di quell'incerto governo, che cade lo stesso disastrosamente e trascina con sé tutta la rappresentanza della sinistra radicale. 
    Neanche un anno fa Rinaldini, finito il suo mandato, cede il passo a Maurizio Landini. Ed è Landini che dovrà scontrarsi, sempre in Fiat, con l'arroganza dell'italo canadese Marchionne, deciso a passare oltre non solo a qualsiasi pratica, ma legge e fin al dettato costituzionale a difesa dei lavoratori. Marchionne presenta un accordo inaccettabile, che Cisl e Uil firmano mentre si rifiuta ad esso la Fiom. Più sola che mai: sia l'ex segretario Ds, Fassino, sia il sindaco Pd di Torino, Chiamparino, dichiarano urbi et orbi «Se fossi un operaio Fiat firmerei». Marchionne procede senza Fiom, che vorrebbe fuori dai piedi e dai reparti, perfino senza Confindustria, da «padrone illimitato», non tenuto a niente e chiama i suoi dipendenti a un referendum lealista, con la minaccia di sottrarre la Fiat all'Italia. Il referendum passa ingloriosamente, quasi uno dei dipendenti su due ha votato contro; la Fiom non è eludibile. È più forte, nel numero degli iscritti e nel peso politico che non fosse venti anni fa. E anche se la Cgil esita a seguirla, Epifani, in uscita, si lascia sfuggire un «La Fiom aveva ragione» che la dice lunga. 
    * * * 
    Ma come può vincere un sindacato da solo? In Italia non c'è più una rappresentanza politica forte che si dica dalla parte del lavoro, come era stato il primo Pci e come sono state, fuori d'Italia, alcune socialdemocrazie. In Europa le confederazioni sindacali sono divise e patentemente in ritardo; l'essersi formate dentro uno stato e davanti a un capitale in massima parte nazionale le inchioda ancora nella incapacità di capire un padronato più di ieri mondiale, una proprietà che si scioglie o si riunisce sopra le loro teste, che gioca crudelmente sulle varianti del costo del lavoro nei paesi terzi e più negli emergenti, e in un'Europa che s'è unificata monetariamente sotto l'egida di un neo liberismo e nel tempo della massima finanziarizzazione, della quale i salariati subiscono tutte le crisi.
    Questo è il quadro che ha davanti a sé la Fiom di Maurizio Landini (o, se si vuole, Maurizio Landini della Fiom). Questo sta alle spalle dello sconquasso della sinistra. O si afferra questo toro per le corna o si ha un bel dire che il capitalismo è in crisi - chi non ha capitali galleggerà per un poco sulle ultime richieste del mercato del lavoro, ma nel medio termine già ogni contrattualità, per non dire ogni autonomia, sarà perduta.

mercoledì 16 marzo 2011

CNH JESI

Nell’incontro odierno tenutosi tra la Direzione di Fiat CNH e la RSU di FIM FIOM e UILM l’Azienda ha confermato la giornata di Cigo del 18 Marzo e ha aggiunto, causa il perdurare di una situazione negativa di mercato, la sospensione dell’attività lavorativa per le giornate dell’ 1 e del 15 Aprile.
Nella stessa giornata di venerdì 18 saranno presenti in fabbrica 180 persone su 3 turni, la maggior parte impegnata in attività di recupero macchine in officina 2.

In ultimo, ma non per ordine di importanza, ci è stata data comunicazione che nel giorno di Sabato 19 l’azienda ha comandato al lavoro circa 20 persone al lavoro Straordinario, motivato dall’attività completamento macchine.
La RSU della Fiom-Cgil ritiene la scelta del sabato straordinario il giorno dopo la Cassa Integrazione, provocatoria e oscena; per l’ennesima volta l’Azienda ha dato prova di incapacità a gestire la fabbrica dal lunedì al venerdì, è inoltre particolarmente ingiusto consentire lo straordinario ai soliti noti, e la perdita del salario agli altri.

Ribadiamo non giustificato l’uso dello straordinario in un periodo di Cassa Integrazione come questo, e incomprensibile di come nemmeno le giornate di “Cassa” siano sufficiente a risolvere le problematiche strutturali che affliggono lo stabilimento da tempo.


Jesi, 16 Marzo 2011 La RSU della Fiom-Cgil

martedì 15 marzo 2011

Uniti per lo sciopero, ci vediamo a Roma

dal Manifesto
Il prossimo 6 maggio lo sciopero generale indetto dalla Cgil si presenta come una grande occasione per il cambiamento nel nostro paese.

Non sarà una data rituale, e questo è gia dimostrato non solo per come è stato letteralmente costruito dal basso, dalle lotte di questi mesi, ma anche dal fatto che l'indizione delle «quattro ore» fatta dalla segreteria è già stata estesa all'intera giornata da molte categorie, dal commercio alla funzione pubblica, alle telecomunicazioni agli edili, e proposta dal segretario generale dei metalmeccanici alla propria categoria.
In questi mesi le lotte per i diritti, la democrazia e la dignità hanno attraversato piazze e strade da sud a nord, riempiendosi di centinaia di migliaia di persone, donne e uomini che dall'università e dalla fabbrica, dalle loro case dai loro territori, sono usciti rendendo visibile un'idea altra e diversa di società da quella che sembra essere l'unica possibile, quella imposta dai fatti che accadono uno dopo l'altro e ci precipitano addosso dall'alto. Sembra ineluttabile infatti il declino a cui è condannata la condizione del lavoro, ridotta a una compravendita di corpi e intelligenze al massimo ribasso, privata di diritti e dignità, schiava delle imposizioni di chi accumula enormi quantità di denaro e potere grazie alla rendita sulle speculazioni finanziarie.
A Pomigliano e Mirafiori, nella scuola o all'università, chi governa lo fa in funzione degli interessi privati di pochi, trasformando i beni comuni, siano essi i diritti o le risorse, la conoscenza o la ricchezza generale prodotta, in qualcosa che è «privato», di pochi e per gli scopi di pochi. La democrazia diviene così il campo libero di manovra di una rete di oligarchie, le cricche, le caste, i potentati di affari, le lobbies senza scrupolo alcuno, le bande di arraffoni, corrotti, mafiosi. La democrazia viene svuotata perché «privata» del controllo pubblico sulle scelte che riguardano tutti; separata dalla giustizia sociale che è il suo fine.
Noi crediamo che sia giunto il momento di dire basta. È il momento di affermare con la forza di una partecipazione ed impegno civile e sociale che non vi è più alcuna differenza tra le lotte contro il ddl Gelmini e quelle degli operai e operaie della Fiat, tra la battaglia democratica contro l'oligarchia al potere e le sue nefandezze pubbliche e private e quella per la dignità delle donne sul lavoro e nella società. Non deve più esserci nessuna separazione tra democrazia e diritti, tra costituzione formale e materiale. Aggravata dalla proposta del ministro della Giustizia di rendere la Corte Costituzionale dipendente dal governo di turno.
Le lotte di questi mesi ci hanno mostrato un altro paese, orgogliosamente vicino alla vita vera, quella piena di difficoltà e di incertezze, di chi ha poco, di chi deve guadagnarsi tutto, conquistarsi passo passo ogni cosa. Il vento che arriva dal sud di questa Europa, ci dice che insieme, in tanti e diversi, possiamo sconfiggere ciò che sembra invincibile, possiamo e dobbiamo sconfiggere la violenza della guerra contro le popolazioni che manifestano in strada e allo stesso tempo l'idea che la democrazia si possa esportare con i bombardamenti. Possiamo e dobbiamo far tornare a vivere la lotta per la pace e dare un corpo comune ai sogni e alle speranze, trasformando la resistenza e l'indignazione in un'idea di nuova società, di nuova democrazia.
È per questo che riteniamo lo sciopero generale l'occasione di praticare insieme questo esercizio di libertà, di essere tutti uniti perché il 6 maggio questo paese si fermi veramente e guardi come prendere in mano il suo futuro. A partire anche dal percorso di Uniticontrolacrisi che ha avuto origine nella grande manifestazione della Fiom del 16 ottobre scorso, facciamo appello a tutti coloro che si stanno mobilitando nei propri luoghi di vita, nelle industrie, nell'università e nella scuola, nelle realtà del lavoro autonomo di seconda generazione, agli intellettuali, agli artisti e a tutto il mondo della conoscenza e dell'informazione, ai comitati ambientali e a coloro che si battono con i migranti per i diritti negati, alle donne, perché questo sciopero sia costruito dal basso, città per città, quartiere per quartiere, e si concretizzi in una grande e lunghissima giornata di protesta e proposta. Uno sciopero che sappia unire l'indignazione con la lotta per i diritti sociali, che sia quindi una sollevazione del popolo della nuova democrazia e della nuova società. Per costruirlo insieme bisogna cominciare subito a mescolarci gli uni con gli altri, a confrontarci tra tanti e diversi su come fare, su cosa significhi «bloccare il paese». Auspichiamo che si possa trovarci a discuterne in una grande assemblea nazionale il prossimo 25 marzo a Roma, a ridosso della manifestazione in difesa dell'acqua pubblica e per i referendum. La primavera è già iniziata.
* Gianni Rinaldini, Gino Strada, Don Andrea Gallo, Maurizio Landini, Luca Casarini, , Loris Campetti, , Michele De Palma, Rossana Rossanda, Moni Ovadia, Paolo Flores d'Arcais, Giorgio Cremaschi, Luciano Gallino, Andrea Alzetta, Francesco Raparelli, Betty Leone, Vilma Mazza, Marco Bersani, Luca Tornatore, , Gianmarco de Pieri, Paolo Cognini, Roberta Fantozzi, Eva Gilmore, Roberto Iovino, Emiliano Viccaro, Luca Cafagna, Simone Famularo, Eva Pinna, Giuliano Santoro, Simona Ammerata, Antonio Musella, Claudio Riccio, Mariano Di Palma, Giuseppe De Marzo, Roberto Giudici, Franz Purpura, Claudio, Sanita, Matteo Jade, Massimo Torelli, Guido Viale, Ugo Mattei.
*Uniti contro la crisi*



mercoledì 9 marzo 2011

FIAT, COME CONQUISTARE LA CONTRATTAZIONE


dal "MANIFESTO"
di MARIO SAI
Comunque vada, il destino della Fiat e di Torino come polo industriale sarà deciso, prima che dalla collocazione della sede legale del gruppo, dalla qualità del lavoro richiesto. La Toyota, che produce 7 milioni di vetture l'anno soprattutto all'estero, mantiene nella sede storica di Nagoya 10 mila ingegneri nella ricerca, sviluppo e sperimentazione. Gli operai lavorano su due turni giornalieri con salari superiori a quelli italiani. Di tutto il piano «Fabbrica Italia» l'unica cosa certa è che l'organizzazione del lavoro (odl) sarà World Class Manufacturing (Wcm). È importante che ne conoscano storia, punti di forza e di debolezza, e che ne discuta non solo la Fiom, ma la politica e la cultura di sinistra. Chiuso il ciclo di lotte che avevano avuto l'odl al centro (alla Fiat l'ultimo accordo importante a tutela degli operai di linea risale a molto tempo fa), questo terreno è stato fatto proprio dalle imprese secondo un nuovo modello di governo del lavoro: il Toyota Production System. È un modo di «pensare all'inverso» rispetto al taylorismo: non più lo sforzo fisico al centro di una rete di gerarchie e procedure, ma l'apprendimento continuo, il lavoro di squadra, la valorizzazione dell'autonomia e responsabilità dei lavoratori. Quando il lavoratore è in difficoltà suona un allarme, tira una corda sospesa e si ferma la linea. Interviene il «team-leader» per risolvere il problema e si riparte. Perché funzioni i lavoratori devono fare propria l'idea che la fabbrica è una comunità di cui si condividono i fini e da cui è espulso il conflitto. Il sindacato deve essere aziendale e collaborativo. In Europa il Wcm ha dovuto fare i conti con una storia operaia e un'organizzazione sindacale diversa, quella del sindacato «generale» caratterizzato dai contratti nazionali di categoria, dagli accordi confederali e da una legislazione di sostegno. Anche per questo il Wcm ha spostato l'attenzione dalla partecipazione al miglioramento (zero difetti, zero guasti, zero sprechi, zero magazzino) e ha imposto una metrica di origine tayloristica per la definizione delle prestazioni di lavoro: l'Ergo-Uas, primo punto del Mirafiori Plant. È un modello organizzativo che per funzionare ha bisogno di un cambio di ruolo dei sindacati: in azienda entrano solo quelli disponibili a condividere le finalità d'impresa per non interferire con la partecipazione in via gerarchica dei lavoratori. Essa è presidiata dalla «clausola di responsabilità» e dalla limitazione del diritto di sciopero, perché nei sistemi di produzione integrati imposti dal just in time la lotta di un numero piccolo di lavoratori può provocare gravi blocchi produttivi. I sindacati dissenzienti sono esclusi, come è negata ogni forma di rappresentanza democratica. Si passa dalla negoziazione sindacale alla fedeltà aziendale. Che a presentare le motivazioni per il si al referendum contro i delegati Fiom ci fossero soprattutto gli impiegati di officina, i supervisori ed i team-leader è stata la conferma di questo nuovo paradigma (non avendo i firmatari alcun ruolo nell'attuazione del contratto). Alla decisiva battaglia sui diritti contro questa deriva si deve affiancare una ripresa di azione rivendicativa. Va richiesta una «contrattazione di anticipo» sull'Ergo-Uas. È vero che è un sistema internazionale di misurazione dei tempi e dei metodi di lavoro, ma non ovunque si applica come vuole il contratto di Mirafiori: da un lato tempi standard imposti sulla base di una ricostruzione delle mansioni e dei movimenti definita dai tecnici aziendali e dall'altro una procedura lunga e burocratica sui reclami. Ecco perché vanno promosse un'iniziativa sindacale e un'estesa mobilitazione di competenze e saperi basati sulle esperienze dei lavoratori, a cominciare dai 1300 a «ridotte capacità lavorative» per farli protagonisti nel definire gli aspetti organizzativi ed ergonomici del sistema. Il secondo terreno è quello della classificazione professionale. Al lavoratore è richiesto di impegnare la sua intelligenza nel processo produttivo, coniugando funzioni esecutive con prestazioni di controllo e progettazione, ma questo non si traduce in salario e progressione di carriera: quasi sempre rimane al terzo livello. È qui che il sindacato ha perso la sua battaglia salariale, subendo la divaricazione tra professionalità e salario, mentre si sfiancava nella rincorsa all'inflazione o alla produttività. Questa frattura va ricomposta, raccogliendo la sfida di Sergio Marchionne, che ha rimesso in discussione l'inquadramento unico. Questi sono i terreni sui quali si può ricostruire l'unità (la sola oggi possibile e necessaria) tra i lavoratori, quelli del «no» come quelli del «si».

lunedì 7 marzo 2011

CNH JESI - VERNICIATURA 2 -

Nella giornata di oggi si è svolto un secondo incontro tra la RSU e la Direzione di Fiat CNH in merito al reparto Verniciatura e al piano di investimento che l’Azienda ha proposto per l’anno in corso.
Sulla base delle istanze dei lavoratori da noi presentate nell’incontro precedente ove l’Azienda si era presentata con risposte insufficienti, oggi  ci sono state illustrate una serie di nuove proposte che dal nostro punto di vista sono meritevoli di verifica in quanto almeno sulla “carta” sembrano affrontare tutta una serie di problemi di cui il reparto soffre da tempo:
- Masking: entro l’estate saranno intraprese delle misure ad eliminare o attenuare le vibrazioni del pavimento.
A livello di ambiente di lavoro sarà effettuata una ridefinizione strutturale dell’area al fine di migliorare le problematiche caldo-freddo-ventilazione e quelle legate ai rumori: il risultato ambientale dovrà essere simile a quello del corridoio adiacente.
- Carteggiatrice: entro il mese di Maggio ne verrà installata un nuovo modello già esistente in altri siti produttivi, capace di affrontare la perdita delle polveri.
- Alle modifiche sarà legata una attività di miglioramento delle postazioni di lavoro e della pulizia del reparto.
- Per quanto riguarda l’area relax è stata presa in considerazione da parte dell’Azienda la possibilità di trovare una soluzione migliore e più confortevole per usufruire delle pause, tale ipotesi sarà ridiscussa al prossimo incontro RLS del 23 Aprile; in tale data saranno inoltre affrontate problematiche emerse alla zona del carico/scarico.
 Nei prossimi giorni ci sarà consegnato un prospetto riassuntivo degli impegni presi dall’Azienda in merito a tali cambiamenti.

In ultimo, continuiamo a ritenere importante la necessità di una assemblea di reparto su cui però ad oggi non abbiamo ricevuto risposta dalle altre sigle sindacali.


Jesi 7 Marzo 2011                                                 La RSU della Fiom-Cgil

mercoledì 2 marzo 2011



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