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sabato 18 settembre 2010

FIAT, PADRONI E BARBONI

 di Loris Campetti

«È un grandissimo giorno per l'auto». Fa impressione quest'inno alla gioia di Sergio Marchionne, cantato mentre le agenzie battevano lanci sul crollo del mercato dell'auto in Europa e sulla pesante perdita di quota dei marchi Fiat. Che c'è da festeggiare?
C'è che «Finalmente l'auto è libera dalle escavatrici e dai trattori». Come se bastasse lo spin-off votato ieri dagli azionisti del Lingotto per far tornare a correre le quattro ruote, quelle Fiat in particolare. Senza modelli nuovi, dove corri? A correre è solo la cassa integrazione, mentre fioccano i licenziamenti per rappresaglia.
La «liberazione» dell'auto dal resto della Fiat può essere letta in molti modi. Uno di questi è che, da decenni la famiglia Agnelli, proprietaria del pacchetto più robusto di azioni Fiat, nell'auto non vuol mettere una lira, è interessata solo alla finanza e ai dividendi. Dividendi puntualmente arrivati anche quest'anno, uno dei peggiori, così difficile che agli operai è stato cancellato il premio di risultato. Ma se la Famiglia non scuce un euro, i soldi vanno cercati altrove. Sui mercati finanziari. E in giro per il mondo dai governi disponibili ad aprire le borse per difendere e incentivare la produzione di auto: Usa, Polonia, Serbia. Meglio fabbricare dove a pagare è lo stato.
E in Italia? In Italia Marchionne fa lotta di classe per convincere qualche buontempone che la lotta di classe non c'è più.
Apre il fonte dei contratti, lavora alla distruzione della Fiom e cerca di convincere tutti che gli unici problemi della Fiat arrivano da Landini che pretende di discutere, contrattare, scioperare. Invece bisogna dare tutto, braccia, testa e diritti all'azienda se si vuole lavorare. Bisogna aumentare la produttività senza aprir bocca. Ma se le fabbriche sono più spesso chiuse che aperte, se la domanda crolla, se per almeno un anno non si avranno segni di vita dai mercati, se per i primi modelli Fiat bisognerà aspettare la fine del prossimo anno, che senso ha pretendere un'organizzazione del lavoro asfissiante, straordinari a gò-gò, abolire scioperi e mensa, cancellare la dignità di chi lavora? Il senso dell'offensiva di Marchionne è chiaro: se e quando ripartirà la domanda, e dunque la produzione, il sindacato dovrà essere stato tolto di mezzo, insieme ai diritti dei lavoratori. Il padrone deve riprendere in mano tutto il potere di comando per guidare la sua nave da guerra - e in guerra i marinai devono remare e anche sparare al nemico, mica riunirsi in assemblea - contro altre navi da guerra. Te la do io la lotta di classe, il Novecento è morto e sepolto.
Dite che esageriamo? Ascoltate allora le parole dell'ammiraglio - e magari in futuro anche armatore - Sergio Marchionne per rispondere a chi gli domanda se è giusto che lui guadagni 435 volte più di un suo operaio: «Intanto la relazione è sbagliata - spiega - perché bisogna fare il calcolo su un salario medio pagato dalla Fiat in tutte le parti del mondo». Va bene, conteggiamo anche gli operai serbi e polacchi. Prosegue Marchionne rivolto a chi lo contesta: «Io vorrei sapere quante di queste persone sono disposte a fare questa vita qui. Domandi quando è l'ultima volta che sono andato in ferie e poi ne parliamo... Si parla sempre di diritti e mai di doveri. Io stamattina quando sono arrivato alle sei e mezza non mi sono preoccupato se i miei diritti erano stati rispettati, sono andato a lavorare». I padroni piemontesi d'un tempo, che Marchionne sembra emulare, esprimevano lo stesso concetto ai loro schiavi con sole 4 parole: 'Ndé a travajé, barbun.