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lunedì 28 febbraio 2011



LA SALUTE NON SI SCAMBIA
 Assemblea nazionale Rls Fiom-Cgil
  Venerdì 11 marzo 2011, Ancona
Auditorium Fiera della Pesca Largo Fiera della Pesca, 11
zona Molo Sud porto di Ancona

IN LOTTA PER LA SALUTE:
- RINNOVARE IL CONTRATTO NAZIONALE E RAFFORZARE LA CONTRATTAZIONE AZIENDALE
- CAMBIARE L'ATTUALE ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO E COSTRUIRE UN                    AMBIENTE DI LAVORO OVE IL LAVORATORE NON SIA MERCE MA PERSONA

APERTURA DEI LAVORI ORE 9.30
PRESIEDE:
GIUSEPPE CIARROCCHI, segretario generale Fiom-Cgil Ancona

INTRODUCE:
MAURIZIO MARCELLI, responsabile nazionale ufficio Salute Ambiente Sicurezza Fiom-Cgil

INTERVENGONO:
Rappresentanze dei lavoratori per la sicurezza
SEBASTIANO CALLERI, Cgil nazionale
ROBERTO CALISTI, responsabile Spresal - Asur 8 Civitanova Marche Macerata
BENIAMINO DEIDDA, procuratore generale Corte d'Appello di Firenze
MASSIMILIANO DEL VECCHIO, ufficio legale Fiom-Cgil Taranto
ANNA MARIA DI GIAMMARCO, Direttivo nazionale Snop
FRANCA GASPARRI, Presidenza nazionale Inca
GABRIELE NORCIA, medico legale Inca
EMILIO REBECCHI, psichiatra
GINO RUBINI, Cgil Emilia Romagna
FRANCESCO TUCCINO, ergonomo

CONCLUDE:
MAURIZIO LANDINI, segretario generale Fiom-Cgil

venerdì 25 febbraio 2011

Tempo di sciopero



dal Manifesto di Loris Campetti


C'è vita nella Cgil. Una vita travagliata, ma in tempi duri è pur sempre un punto di partenza. Il sindacato diretto da Susanna Camusso ha deciso di organizzare uno sciopero generale di tutte le categorie, una scelta molto importante, tutt'altro che scontata alla vigilia del direttivo nazionale del più forte sindacato italiano. Inizialmente a chiedere una mobilitazione straordinaria di tutte le categorie dell'industria, dei servizi, del commercio e dei pensionati era la sola Fiom con il sostegno della minoranza congressuale della Cgil. La Fiom ai metalmeccanici ha già chiesto molto: una manifestazione e uno sciopero nazionali in tre mesi per spiegare che in Italia non c'è solo il bubbone Berlusconi ma anche la mina Marchionne, tutti e due da rimandare a casa perché l'uscita dalla crisi non sia peggiore della crisi stessa. A rischio, ha ripetuto la Fiom, non ci sono solo le tute blu ma l'intero mondo del lavoro. Si sta facendo a pezzi la democrazia nel nostro paese.
Quando il modello Marchionne si è esteso come la peste e, a partire dalla Fiat, ha contagiato persino la scuola e il pubblico impiego; quando anche i pensionati dello Spi hanno compreso l'intreccio velenoso tra una Confindustria piegata a Marchionne e un governo impegnato nello smantellamento dell'intero sistema dei diritti che quei lavoratori di ieri avevano conquistato al prezzo di durissime lotte; quando persino nel commercio ha fatto capolino il modello Mirafiori; quando cioè la politica degli accordi separati contro la Cgil è diventata dominante, allora il direttivo della Cgil ha capito che il tempo degli appelli alla buona volontà e ad improbabili alleanze era finito e ha deciso lo sciopero generale.
Non era questo l'obiettivo a cui lavorava la segretaria generale, comprensibilmente preoccupata dal rischio di isolamento della Cgil. Susanna Camusso ha fatto l'impossibile per convincere Cisl e Uil che la strada imboccata è destinata a provocare rotture ancor più insanabili e a far arretrare di decenni il movimento dei lavoratori. La segretaria ha poi spedito messaggi concilianti alla Confindustria, puntando alla costruzione di un fronte unico contro il governo Berlusconi. Ma ha ricevuto solo schiaffi, anche insulti e nuovi accordi separati. Il problema in Italia non è la Fiom e la sua radicalità, i problemi si chiamano governo, Confindustria, Cisl, Uil. E, probabilmente a monte di tutti gli altri, c'è l'assenza, quando non la complicità con gli avversari, delle forze maggioritarie dell'opposizione.
Susanna Camusso ha dovuto prendere atto che il tempo del dialogo è finito. Sarebbe incomprensibile se ora, attraverso sotterfugi burocratici, qualcuno in Cgil tentasse di diluire l'effetto sciopero spostando nel tempo la data. Non lo capirebbero i lavoratori e le lavoratrici in attività e in pensione. Non lo capirebbero gli studenti che si battono nelle scuole e nelle università contro un modello culturale devastante, non lo capirebbero i precari di ogni lavoro, i giovani disoccupati, gli attivisti impegnati nella difesa dei beni comuni e del territorio. E non lo capirebbero i cittadini, donne e uomini, tornati protagonisti in difesa della democrazia e della Costituzione. La Cgil può diventare una casa comune per l'Italia non berlusconizzata e non pacificata, come già è per la Fiom.
C'è bisogno di uno sciopero subito, generale e, perché no, generalizzato. Sarebbe, con i suoi effetti benefici, il modo migliore per festeggiare i 150 anni dell'unità d'Italia.


giovedì 24 febbraio 2011

ASSEMBLEA NAZIONALE AUTOCONVOCATA - clicca sopra -

CNH JESI - VERNICIATURA -

Nella giornata odierna si è svolto un incontro tra la RSU e Fiat CNH Italia in merito al reparto verniciatura. L’Azienda ha presentato un piano di investimento da intraprendere nel reparto da qui alle ferie estive di Agosto attraverso misure che toccano vari aspetti del reparto: dal miglioramento del processo produttivo, alla sicurezza e all’ambiente.Dal nostro punto di vista, quanto ci è stato proposto è insufficiente a risolvere strutturalmente questioni sollecitate dai lavoratori e dalle organizzazioni sindacali più volte in questi anni, soprattutto in merito all’area relax, al processo di “carteggiatura” svolto in mezzo l’officina senza una adeguata aspirazione, alle problematiche legate al caldo e al freddo, e ad una adeguata riorganizzazione della zona del “masking” più consona alle esigenze dei lavoratori e al loro diritto di lavorare in un ambiente salubre.
A fronte di tutto ciò l’incontro è stato aggiornato alla data del 7 marzo.Prima di tale data riteniamo utile la convocazione di una assemblea di reparto capace di fare il punto della situazione con i lavoratori.




Jesi, 22 Febbraio 2011        La RSU DELLA FIOM-CGIL

lunedì 21 febbraio 2011

CNH JESI

A seguito dell’incontro tenutosi in data 21 febbraio 2011 presso la sede di Assindustria Ancona, tra le O.O.S.S. FIM FIOM e UILM e FIAT CNH Italia, sono stati trattati i seguenti argomenti.
L’azienda ci ha informato che in merito all’anno 2011 l’attività produttiva si assesterà sul numero di circa 24.000 macchine con la possibilità di dimezzare l’utilizzo della CIGO rispetto al 2010, per cui una situazione di mercato che ad oggi si prefigura meno drammatica rispetto agli anni 2009 e 2010.
Per quanto riguarda le risposte in merito alle prospettive future produttive ed occupazionali dello stabilimento, CNH ha rinviato di circa 45 giorni l’incontro per definire in maniera il più possibile chiara le scelte strategiche su Jesi in merito a modelli, lavorazioni e ad organizzazione del lavoro (ergo uas).
Pur confermando che il 2011 sarà un anno che peserà meno sulle tasche dei lavoratori a livello di CIGO, ad oggi non siamo in grado di esprimere un giudizio complessivo sull’incontro in quanto i punti salienti che riguardano il futuro dello stabilimento sul medio periodo verranno resi noti e approfonditi in occasione del prossimo appuntamento.

La R.S.U. FIOM CGIL

Jesi, 21 Febbraio 2011

venerdì 18 febbraio 2011

Marchionne, la sinistra e l’addio all’auto italiana, dal sito Eguaglianza e Libertà

Il manager rifiuta di esporre la sua strategia, ma è chiaro che il nostro paese avrà un ruolo residuale. Il triste paradosso è che tra la Germania, punta di diamante dell’industria europea e gli Usa in piena crisi, una parte della sinistra e del sindacato sceglie il modello americano di Marchionne
Antonio Lettieri

Vi è qualcosa di tristemente paradossale nel modo come Marchionne ha diviso il PD, oltre ai sindacati. Per Susanna Camusso, Marchionne ha rivelato un atteggiamento autoritario e antidemocratico, in  altre parole, ricattatorio. Per una parte del PD si tratta, al contrario, di un richiamo alla realtà della globalizzazione e alla necessità di adeguarvi la strategia del sindacato. L’unica obiezione per questa posizione è l’esclusione della FIOM dalla rappresentanza dei lavoratori. Obiezione sacrosanta – sarebbe stupefacente il contrario – ma insufficiente. Questa è solo la punta dell’iceberg.

Per ragionare del piano di Marchionne bisogna partire dal fatto che il suo destino di manager internazionale è definitivamente legato alla Chrysler. Sarà Detroit a decretare il suo successo o il suo fallimento. La Chrysler viene da un passato travagliato. Negli ultimi decenni è stata ripetutamente sull’orlo del fallimento. Emarginata dal grande mercato americano, non può stupire che quando nel 2009 Barack Obama decise, dopo la procedura di fallimento, il salvataggio della GM e della Chrysler, nessun imprenditore americano si fece avanti per porre mano alla Chrysler con la quale si era cimentata la tedesca Daimler, produttrice della Mercedes Benz, rimettendoci miliardi di dollari, prima di ritirarsi nel 2007.

Ma per le ambizioni di Marchionne si trattava di un’occasione imperdibile. La Chrysler era ceduta a titolo gratuito con una dotazione del 20 per cento delle azioni e la possibilità di acquisire prima il 35 per cento, e poi la maggioranza del pacchetto azionario (ora nelle mani del sindacato dell’auto), una volta ripagato il debito di oltre sette miliardi di dollari ai governi americano e canadese. Non è difficile comprendere come per Marchionne riuscire a rilanciare la “Terza grande” di Detroit, acquisendone il controllo, è l’impresa della sua vita. E come la Fiat vi giochi un ruolo complementare e, per alcuni aspetti, residuale.

Proviamo a riassumere alcuni dati. Nel 2010 la Chrysler ha prodotto all’incirca un milione di auto (e veicoli leggeri). A metà di questo decennio ne aveva prodotte più di due milioni. Marchionne si è fissato l’obiettivo di arrivare a 2.800.000, poco meno del triplo della produzione corrente, entro il 2014. Per gli analisti più scettici è un traguardo velleitario. Ma nello schema strategico di Marchionne è un obiettivo essenziale per raggiungere il traguardo di cinque milioni e mezzo/sei milioni di unità fissato per l’alleanza Fiat-Chrysler.

Nel disegno strategico di Marchionne, il ramo più importante del gruppo Fiat è quello brasiliano, dove la Fiat è tra i produttori il numero uno, precedendo Volkswagen e General Motors. Non a caso, per la fabbrica di Betim alla periferia di Belo Horizonte, che è una delle più grandi fabbriche automobilistiche del mondo, la Fiat ha stanziato investimenti che consentiranno un aumento della capacità produttiva fino a un milione di unità. Un'altra fabbrica sarà costruita nello stato di Pernambuco per 200.000 unità. Con un milione e duecento mila auto, il doppio di quelle costruite nel 2010 in Italia, Fiat consolida il suo primato sul mercato brasiliano. Se a Detroit spetterà, con la Chrysler, il ruolo di capofila dell’alleanza, il Brasile diverrà il sito più importante del gruppo Fiat. 


Se i due terzi del piano produttivo sono affidati alla Chrysler e al ramo brasiliano della Fiat, all’Europa non può che spettare un ruolo di supporto con diverse variabili. La Polonia consoliderà la sua posizione con una produzione di 600.000 unità a Tychy. Il “progetto Serbia”, per il quale esiste un accordo col governo serbo che conferisce i due terzi della proprietà a Fiat e un terzo allo Stato, prevede a regime la produzione di 200.000 unità negli stabilimenti ristrutturati della vecchia Zastava. Altre 100.000 unità sono in produzione a Bursa in Turchia. Ciò che rimane del grande progetto “globale” Chrysler-Fiat (a partire dalle 600.000 unità attuali, ma l’Alfa Romeo dovrebbe passare alla Volkswagen) potrà essere distribuito fra gli stabilimenti italiani, a seconda delle circostanze e delle convenienze .

Non può sorprendere che Marchionne rifiuti di mostrare il suo piano di investimenti in Italia. Sarebbe dura anche per i suoi più volenterosi estimatori del PD e dei sindacati firmatari degli accordi di Pomigliano e Mirafiori prendere atto che della vecchia FIAT – Fabbrica Italiana Automobili Torino – non rimarrà che una pallida ombra, con il centro trasmigrato a Detroit e la principale diramazione in America latina.
Rispetto al killeraggio della Fiat la globalizzazione evocata con forza da Sergio Romano e da Eugenio Scalfari è un alibi inconsistente. La Toyota, la Volkswagen, la  Ford e la GM, come il gruppo PSA e la Renault francesi sono imprese “globali”che producono e vendono in diversi continenti, ma a nessuno verrebbe in mente di negare che, in primo luogo, si tratta di imprese i cui centri di riferimento, di ricerca e di sviluppo sono in Giappone, in Germania, negli Stati Uniti e in Francia.


Nel 2010 il gruppo Fiat avrà collocato sul mercato dell’Unione europea all’incirca un milione di auto, i due maggiori gruppi francesi tre milioni e i produttori tedeschi sei milioni. Dobbiamo questo scarto drammatico all’ingordigia dei sindacati italiani – in particolare, della Fiom – ignari dell’avvento della globalizzazione? Al rifiuto di adeguare i salari italiani a quelli polacchi e – perché no? – cinesi? Ma ilSole 24 ore (28 ottobre) onestamente ci ricorda che alla Volkswagen il salario lordo di base degli operai della linea di montaggio è di 2.700 euro al mese e quello degli operai della manutenzione  di 3.300-3.500 euro. E non si tratta solo di salario. I rappresentanti dei lavoratori occupano il 50 per cento dei seggi del Consiglio di sorveglianza (come in tutte le grandi imprese tedesche), dove si discute la strategia dell’impresa, gli investimenti e le garanzie dell’occupazione. Quando un’impresa sostituisce un diktat alla pratica di un normale negoziato e al sindacato che dissente è negata la cittadinanza in fabbrica, il problema non è la globalizzazione, ma l’americanizzazione delle relazioni industriali.

Ma vi è qualcosa di più, qualcosa di tristemente grottesco. Tra la Germania, punta di diamante dell’industria europea e gli USA in piena crisi, una parte della sinistra e del sindacato sceglie il modello americano di Marchionne. Il modello della contrattazione aziendale che ha messo in ginocchio l’AFL-CIO, quello che fu il potente sindacato americano ridotto all’otto cento di iscritti nel settore privato. L’America dove, dopo Reagan e non ostante Barack Obama, chi sciopera può essere sostituito a tempo indeterminato dai crumiri. Dove si può lavorare nello stesso posto di lavoro con la metà del salario. 

Landini ha detto: provate voi a lavorare alla catena di montaggio prima di parlare di ritmi, cadenze, pause, turni. Una questione banalmente demagogica per chi ragiona secondo i grandi paradigmi della globalizzazione e della modernizzazione. Eppure questo è il mestiere del sindacato. In ogni caso, basterebbe chiedersi se Marchionne avrebbe potuto presentare il suo progetto di marginalizzazione, se non di definitiva distruzione, della Fiat e di smantellamento del sistema di relazioni industriali, a un normale governo di destra come quello tedesco o francese, o a un sindacato come l'IG Metall, senza essere sbeffeggiato e considerato un semplice provocatore, bizzarro e arrogante. In Italia assume, invece, le sembianze di un “modernizzatore” e di un riformatore lungamente atteso.


mercoledì 16 febbraio 2011

LIBERO MARCHIONNE IN LIBERO MERCATO

Francesco Garibaldo e Riccardo Realfonzo
La forte resistenza della Fiom-Cgil al cambiamento del quadro delle relazioni industriali voluto da Marchionne, con l’importante risultato ottenuto dal sindacato dei metalmeccanici in occasione del referendum di Mirafiori, finisce per mettere in discussione non solo le scelte di Fiat ma anche il modello di scambi internazionali in cui l’Italia e l’Europa sono immersi. È necessario esserne consapevoli e non compiere errori nella valutazione sul livello effettivo della contesa, dal momento che perdurando quel modello di scambi internazionali diverrebbe sempre più difficile difendere le posizioni della Fiom.
Il punto da cui partire è riconoscere che l’attuale palinsesto macroeconomico europeo colloca l’Italia e l’intera Unione Monetaria in un sistema di scambi internazionali caratterizzato dalla piena apertura dei mercati e dalla perfetta mobilità dei capitali. In un contesto istituzionale di questo tipo un qualsiasi Paese, o una qualsiasi impresa, che volesse fissare un livello dei salari o delle tutele dei lavoratori superiori a quelli registrati negli altri paesi dovrebbe ogni volta essere in grado di compensare quei maggiori livelli – che in fin dei conti determinano, direttamente o indirettamente, un incremento del costo assoluto del lavoro – con una maggiore produttività del lavoro. Il che significa mettere in campo, rispetto agli altri, tecnologie più avanzate, maggiori investimenti in istruzione e formazione, infrastrutture migliori. Solo in tal modo, dato il contesto istituzionale, il livello relativamente più elevato dei salari e delle tutele può coesistere con un costo del lavoro per unità di prodotto competitivo con i partners commerciali. Per questa ragione, è corretto affermare che l’apertura incondizionata dei mercati e la libertà dei movimenti di capitale tendono a livellare verso il basso i salari e i diritti dei lavoratori.
Ciò premesso, è opportuno sottolineare che la tensione della concorrenza internazionale è oggi tanto spinta che anche i paesi tecnologicamente più avanzati, che pure potrebbero permettersi salari e diritti maggiori, come la Germania, stanno praticando politiche di moderazione salariale e compressione dei diritti dei lavoratori. Naturalmente, la spinta proveniente dalla Germania accelera ulteriormente i processi di mercato e in qualche modo determina reazioni imprenditoriali nella direzione della ulteriore compressione di salari e tutele. Per queste ragioni, i critici della dirigenza Fiat dovrebbero consapevolmente assumere che il tema di fondo da affrontare è quello di una auspicabile riduzione del grado di apertura dei mercati e dei movimenti di capitale. Tenendo conto che, alle condizioni attuali, le delocalizzazioni sono il meccanismo ovvio attraverso il quale la deflazione salariale e la contrazione delle tutele inesorabilmente procede.
A ben vedere si tratta delle questioni già sollevate nel giugno scorso dalla “Lettera degli economisti”  contro le politiche di austerità in Europa, pubblicata da questa rivista, e dal dibattito che da essa è seguito. La “Lettera” ha mostrato tra l’altro, come l’assetto degli scambi internazionali attuale, se non governato, tenda ad alimentare la crisi, dal momento che la maggiore apertura dei mercati internazionali determina una tendenziale compressione della quota dei salari sul Pil e questa a sua volta spiega in buona misura la caduta della domanda aggregata, e dunque la crisi (a riguardo si rinvia all’articolo “Prendendo la FIOM sul serio”). Insomma, per quanto discutibili sul piano etico e sociale, le scelte di Marchionne, in assenza di innovazione, hanno una logica imprenditoriale, il cui risultato nell’aggregato si rivela socialmente ed economicamente rovinoso.
E tuttavia, la questione Fiat si pone nei termini più gravi dal momento che Marchionne non sembra affatto avere messo in atto una strategia tale da preservare i livelli salariali e i diritti per via di un incremento della produttività del lavoro (al di sopra dei contendenti che propongono modelli di dumping sociale). Piuttosto, sembra preoccupato di inseguire tutti i finanziamenti pubblici possibili, da quelli statunitensi, a quelli russi, a quelli messicani, a quelli serbi. Inoltre pare essere attirato, molto più che da una competizione alta, giocata sulle nuove tecnologie, dalle possibilità di localizzazione in realtà dove salari particolarmente bassi e tutele ridotte al minimo gli consentano di ampliare per questa via la differenza tra salario e produttività.
Attualmente, il mercato dell’automobile sta mutando. La ragione del cambiamento sta nel fatto che il motore endotermico, in aree ad alta densità abitativa, sta diventando un problema per la mobilità, come i cinesi, adesso con l’auto, e gli indiani, prima con i motorini, hanno verificato e come noi sperimentiamo tutti i giorni nella vecchia Europa. Le case automobilistiche stanno quindi investendo significativamente in nuovi propulsori e in nuovi modelli, abbandonando progressivamente l’idea di un’auto che copra ogni bisogno di mobilità dell’utente, a favore di auto mirate al loro uso prevalente che, in Europa, è la città con percorrenze chilometriche medie inferiori ai 20 chilometri. È un processo lungo ma ormai avviato per tutte le grandi case europee, compresi i prodotti di lusso – in gergo chiamati “premium”. Ma la “FIAT Auto” ha un livello basso d’investimenti in quella direzione e l’unico prodotto che potrebbe giocare un ruolo – la “cinquecento” con propulsore elettrico - è previsto solo sul mercato americano.
Inoltre il mercato globale dell’auto, così evocato oggi in Italia, è caratterizzato da andamenti spiccatamente divergenti tra le grandi aree economiche. In Cina, India, Russia e Brasile le importazioni di auto, di componenti e di beni capitale, crescono fortemente, grazie al costituirsi di una classe media, statisticamente piccola rispetto ai quei paesi ma che pesa, in alcuni casi, come tutto il mercato europeo. Si possono avere molti dubbi sulla sostenibilità a medio e lungo termine di quel modello neo mercantile, in special modo quando si parla della mobilità basata sull’auto, ma una cosa è certa chi è fuori da quei mercati non ha possibilità alcuna di essere un protagonista forte del mercato globale. Infatti, nell’altra parte del mondo – l’Europa e l’America settentrionale – il mercato è stagnante per la combinazione di un’eccedenza tra produzione e consumo, pari al 30-40%, e dagli effetti deflattivi della crisi sui consumi di massa. Ora, la “Fiat Auto” è presente nel “mondo nuovo” in modo rilevante solo in Brasile, che non a caso ne riequilibra i conti interni; spera, poi, in un rilancio significativo in Russia, grazie allo stabilimento serbo giocando sul fatto che la Serbia ha un accordo di libero scambio con la Russia per prodotti manifatturati in Serbia.
Viene dunque da chiedersi quali siano le potenzialità effettive di espansione della Fiat nel quadro del sistema di scambi internazionali attuale. L’interrogativo è ancora più crudo se si guarda al rapporto tra “FIAT Auto” e Chrysler. Se, infatti, vi deve essere una sinergia tra le due imprese allora, per effetto dell’accordo con il governo americano, è la “FIAT Auto” che deve aiutare la Chrysler, con un trasferimento di tecnologie e competenze ma anche di denaro se si vuole arrivare al 51% di controllo, a conquistare fette di mercato non solo negli USA e in Canada, ma specificatamente in Brasile. Resterebbero quindi l’Europa e la Russia, dove la “FIAT Auto” dovrebbe conquistare nuove fette di mercato a spese delle altre imprese europee. Gli analisti sono piuttosto scettici al riguardo anche perché sin qui le quote di mercato Fiat si sono contratte.
Da tutto ciò si ricava una conclusione evidente: la “FIAT Auto”, nella joint venture con Chrysler, sposterà il suo baricentro verso il continente americano dove perderà o vincerà una scommessa per la sua stessa sopravvivenza; lì infatti tutto avverrà e lì ci sono risorse finanziarie pubbliche disponibili. L’Europa diventerà il secondo mercato, mercato nel quale la nuova realtà – “FIAT Auto”- Chrysler – posizionerà, nell’ipotesi migliore, alcuni prodotti Chrysler, – I SUV di cui si parla per Mirafiori – i cui componenti sono fatti negli USA, per segmenti di mercato che non sono certamente di massa e per il resto cercherà, in competizione più con le aziende francesi che con quelle tedesche, di intercettare la domanda di auto a basso costo forte in Europa. Il punto è che anche queste auto dovranno sempre di più rispondere a stringenti requisiti di emissione – è una forma di protezionismo europeo contro i produttori asiatici – e quindi non saranno auto a basso contenuto d’innovazione. Le aziende tedesche e francesi hanno costruito un modello di business per questo settore di mercato: utilizzare i differenziali salariali e normativi con l’Est Europeo, e gli importanti sussidi pubblici esistenti, per realizzare un sistema integrato di progettazione e produzione che affida ai “paesi madre” la ricerca e sviluppo e a quelli “terzisti” parte significativa della produzione; i livelli extra di profitto alimentano le spese di investimento, i governi nazionali della Francia e della Germania contribuiscono in vario modo.
Nulla di tutto questo è presente nel “Piano Italia” che affida al paese un ruolo “terzista”, questo sì globale. A prova di ciò si pensi ai contenuti del piano per Pomigliano e Mirafiori; nel primo il prodotto a minor valore aggiunto che ha sul mercato, l’opposto di quanto si faccia in Francia con la Logan; nel secondo un’auto che, se si dovesse vendere, ha buoni margini di guadagno ma che venendo solo assemblata a Torino, per poi essere redistribuita globalmente, brucerebbe parte significativa di tali margini.
Si capisce anche perché Marchionne si adonti quando gli chiedono i contenuti industriali del piano; il contenuto industriale, infatti, è di “risulta globale”.

domenica 13 febbraio 2011

Fiat "Marchionne non ha un piano"


Il segretario Landini accusa: "Quelle dell'ad su governabilità delle fabbriche e gli intoppi al progetto Italia sono solo scuse. Noi valutiamo scioperi ed azioni legali per continuare la nostra battaglia"

I metalmeccanici della Cgil non hanno comunque intenzione di gettare la spugna. "Si faranno scioperi, ne discuteremo. E poi c'è il diritto del lavoro: agiremo anche sul piano legale", dice Landini annunciando le battaglie che l'organizzazione intende portare avanti contro Fiat per "chiedere che si riapra una trattativa vera".
"Si apre una fase di lotta - aggiunge - chiediamo una vera trattativa, perchè finora c'è stato solo un ricatto. Marchionne deve capire che deve applicare i contratti e accettare la contrattazione. Mirafiori e Pomigliano cancellano il contratto nazionale e la contrattazione in azienda. Deve accettare una trattativa vera: in Italia lo sciopero è un diritto, così come essere pagati in caso di malattia. Con i suoi 'regolamenti' Marchionne ha cancellato la libertà dei lavoratori di organizzarsi in sindacato. Cancella 50 anni di storia sindacale e introduce un sindacato corporativo e aziendale".
"Forse - continua il sindacalista - è il momento di non aver paura di far venire in Italia costruttori stranieri. E poi servirebbe un intervento pubblico,come hanno fatto in Germania con Volkswagen e Opel o come hanno fatto in Francia. Senza per altro cancellare contratti o diritti dei lavoratori". "Un Governo degno di questo nome - aggiunge - avrebbe aperto questa discussione. Mentre invece Marchionne fa quello che vuole e si fa finta di non capire".




venerdì 11 febbraio 2011

L'Italia, fabbrica cacciavite della Fiat - di Guido Viale

Nessuno si è chiesto che cosa sarebbe successo se a Mirafiori avessero vinto i no. Non è una domanda peregrina; in fin dei conti i sì hanno vinto per pochi voti. Se avessero vinto i no, Marchionne, i sindacati gialli (Cisl, Uil, Fismic e compagnia) e Sacconi (in rappresentanza di un governo che non esiste più) avrebbero subito uno smacco ancora maggiore; ma nei fatti non sarebbe successo niente di diverso da quello che accadrà.
Con la vittoria dei sì gli operai andranno in Cig per almeno un anno. Quando, e se, Mirafiori riaprirà, la situazione in Italia e nel mondo potrebbe essere molto cambiata. Nel frattempo verranno costituite, a Pomigliano, a Mirafiori, e poi in tutti gli altri stabilimenti Fiat, tante nuove società (all'inglese, NewCo) che assumeranno con contratti individuali e vincolanti gli operai che serviranno. Alla Zastava (l'impianto serbo della Fiat) ne stanno scartando tantissimi. A Mirafiori, con un'età media di 48 anni, un terzo di donne e un terzo con ridotte capacità lavorative, a essere scartati saranno forse ancora di più. Poi cominceranno ad arrivare motori, trasmissioni e pianali prodotti negli Usa per essere assemblati con altre componenti di varia provenienza, trasformati in suv e Jeep (che è l'«archetipo» di tutti i suv) e rimandati indietro: fino a che l'«esportazione» dagli Usa in Italia di quei motori e pianali non avrà raggiunto un miliardo e mezzo di dollari, come da accordi presi tra Marchionne e Obama. Poi si vedrà: di sicuro cesserà quell'avanti e indietro di pezzi tra Detroit e Torino che non ha senso; e per Mirafiori bisognerà trovare una nuova produzione e, forse, un nuovo «accordo». Ma non è detto che ci si arrivi: il prezzo del petrolio è tornato a salire; il Medio Oriente (il serbatoio delle auto di Oriente e Occidente) è in fiamme; quei suv, che due anni fa Marchionne aveva escluso di poter produrre in Europa, potrebbero non trovare acquirenti neanche negli Usa. Se invece il «colpo grosso» di Marchionne sulla Chrysler andrà in porto, la direzione del nuovo gruppo unificato emigrerà negli Usa. Gli operai che hanno votato sì non si sono affatto assicurati il futuro.
E se avessero vinto i no? Marchionne avrebbe dovuto comunque «esportare» in Italia (e dove, se no?) motori e pianali per poi reimportarli montati; perché esportare dagli Usa vetture finite per un miliardo e mezzo di dollari gli è assai più difficile. E nemmeno avrebbe potuto montarli in uno stabilimento del Canada (come aveva minacciato), o del Messico (dove monta la 500); perché sono entrambi paesi del Nafta e le esportazioni verso quell'area non contano ai fini dell'obiettivo imposto da Obama.
L'investimento, poi, sarà lo stretto necessario (il cosiddetto «accordo» di Mirafiori non include nessun impegno su questo punto e Marchionne ha detto e ripetuto che tutto dipenderà da come andrà il mercato). Ma con due stabilimenti e 10.000 e più addetti in Cig per un anno, per Fiat la perdita di ulteriori quote di mercato in Europa è certa; e sarà sempre più improbabile arrivare a esportare dall'Italia un milione di vetture nel 2014, come previsto dal piano Fabbrica Italia, anche includendo i 250mila suv assemblati a Mirafiori e trasferiti a Detroit, che sono un po' un gioco delle tre carte. Lasciamo poi perdere gli altri 18 e rotti miliardi di investimenti previsti dal piano...
Ma che cosa sarà la Fiat nel 2014? Una serie di marchi governati da Detroit e tante società (NewCo) distinte quanti sono gli stabilimenti (o anche più: a Mirafiori ce ne sono già diversi); ciascuna delle quali avrà produzioni indipendenti. La Zastava produrrà auto Fiat, ma Mirafiori produrrà auto Chrysler e Alfa (se questo marchio non verrà venduto), mentre Fiat Poland lavorerà sia per Fiat che per Ford. Così, se «il mercato» lo richiederà, anche gli stabilimenti italiani ex Fiat potranno lavorare in tutto o in parte per la concorrenza. Insomma, quello che gli «accordi» di Pomigliano e di Mirafiori stabiliscono è che Fiat-Chrysler sarà una cosa e le NewCo, con gli operai legati al «loro» stabilimento da un contratto individuale, sono un'altra; e che ciascuna andrà per la sua strada: potrà essere chiusa, o venduta, o data in affitto, o lavorare «in conto terzi», senza che ciò abbia alcuna ripercussione sugli altri stabilimenti e sugli altri lavoratori dell'ex Fiat Group. Se gli operai delle imprese globali devono trasformarsi in truppe al comando dei rispettivi manager per fare la guerra agli operai di altre imprese e di altri manager globali, come dice Marchionne, questa guerra, in cui i lavoratori perderanno sempre e non vinceranno mai, non si svolgerà solo tra grandi competitor globali, ma anche tra le varie NewCo in cui si risolverà lo «spezzatino» della Fiat.
Sapevano queste cose gli operai di Mirafiori quando hanno votato? No. Qualcuno aveva cercato di spiegargliele? No (solo la Fiom, benemerita, aveva distribuito agli operai il testo del contratto che i sindacati gialli avevano firmato senza nemmeno convocarli in assemblea). Avrebbero votato allo stesso modo se fossero stati adeguatamente informati? Forse no: tutti quelli del sì pensavano e dicevano che almeno così avrebbero salvato il loro futuro. Eppure 150 economisti hanno sottoscritto un documento di dura critica dell'accordo e di sostegno alla Fiom. Se si fossero adoperati per mettere per tempo al corrente lavoratori e opinione pubblica di quel che bolliva in pentola, invece di lasciare campo libero a chi spiegava - e continua a ripetere - urbi et orbi che quell'accordo garantisce un futuro sicuro sia agli operai che al Gruppo, forse il referendum avrebbe avuto un esito diverso. Non è una recriminazione ma una proposta di lavorare in comune - a più stretto contatto con il mondo reale - rivolta a tutti gli interessati.
C'è un'alternativa a tutto questo? Sì; quella di abbandonare gradualmente le produzioni dove la competizione non è che una corsa a perdere - e l'industria dell'auto è oggi il settore dove questi effetti sono più vistosi e più gravidi di conseguenze - per imboccare una strada dove il rapporto con il mercato sia più diretto, concordato, meno aleatorio e meno esposto all'alternativa mors tua vita mea. La mobilità sostenibile, solo per fare un esempio (ma ce ne sono altri mille, e l'efficienza energetica o le fonti rinnovabili sono tra questi) non vuol dire solo produrre meno auto - e auto meno energivore, meno inquinanti, meno effimere, meno veloci, meno costose, da usare soprattutto in forme condivise - e più treni, più tram, più bus grandi e piccoli; vuol dire gestire in forme coordinate la domanda di spostamenti di merci e persone avvalendosi di tutte le opportunità offerte dalle tecnologie telematiche; e impiegando in servizi essenziali molto più personale di quanto ne richiedono i robot di una fabbrica semiautomatizzata. Ma è una scelta che non può ricadere solo sulle spalle degli operai di una fabbrica dal futuro incerto; e nemmeno su quelle di un sindacato; e meno che mai su quelle di un management che vede nella competizione senza limiti l'unica ragion d'essere del proprio ruolo e dei propri spropositati guadagni. È una scelta che deve fare capo - come ha detto Marco Revelli al seminario Fiom-Micromega di Torino - a un'intera comunità: e innanzitutto a quelle il cui destino dipende da quello dei lavoratori - giovani, anziani, occupati, disoccupati o precari - a cui accordi come quello di Mirafiori rubano il futuro. E «comunità», qui, non è una parola astratta: vuol dire amministrazioni locali, Comuni, Province, Università, Asl, ricerca, istituzioni culturali, associazioni, comitati, parrocchie, media, programmi elettorali: ciascuno deve chiedersi che cosa può fare per capirne di più, per informare se stesso e gli altri, per contribuire, con la propria esperienza diretta, il proprio bagaglio culturale, la propria professionalità, la propria etica, a un progetto condiviso. E' un compito comune perché per tutti - o quasi - il baratro è alle porte.

LO SMACCO DEL LINGOTTO di Luciano Gallino

L’Amministratore delegato Sergio Marchionne ha annunciato che il gruppo Fiat-Chrysler, una volta che fosse interamente unificato, potrebbe stabilire la propria sede legale negli Stati Uniti. Sarebbe un fatto senza precedenti. Non si ricorda infatti un altro grande costruttore, di quelli che hanno fatto la storia dell'automobile, che abbia de-localizzato non solo il proprio braccio produttivo, ma anche la propria testa, gli enti che decidono e guidano tutto il resto di un grande gruppo nel mondo. Toyota e Volkswagen, Citroen e Renault, General Motors e Ford producono milioni di auto in paesi terzi, ma il quartiere generale, il cuore della ricerca e sviluppo, il controllo gestionale e finanziario restano ben saldi nel paese d'origine.

Sarebbe un grave smacco per Torino, per il Piemonte e per tutto il Paese se Fiat cambiasse nazionalità. L'Italia resterebbe con una sola grande industria manifatturiera, la Finmeccanica, che per il 40 per cento produce armamenti, non esattamente il tipo di produzione di cui un paese possa andare fiero, anche se permette di realizzare buoni utili.
Questo in un momento in cui l'industria automobilistica è dinanzi a sfide, tipo la mobilità sostenibile, che potrebbero cambiare profondamente la sua struttura produttiva ed i rapporti con altri settori che cominciano seriamente a occuparsi di uno dei maggiori temi da affrontare per evitare il suicidio delle città causa collasso del traffico.

Inutile illudersi in merito a ciò che resterebbe a Torino, nel caso che la testa di Fiat Auto se ne vada a Auburn Hills o a Detroit. Il Centro Ricerche Fiat, da cui sono uscite alcune delle più importanti innovazioni degli ultimi anni, in specie, nel campo dei motori, sarebbe prima o poi destinato a seguirla, insieme con i designer, i tecnici che progettano i sistemi base di un'auto, gli esperti di autoelettronica. Quanto ai fornitori di componenti, potranno sperare di trovare nuovi clienti tra i grandi gruppi europei ed extraeuropei che continueranno a costruire milioni di auto in ambito Unione europea gestendo con mano sicura la produzione dalle loro sedi nazionali.

È un esercizio sgradevole a farsi, ma dinanzi a un evento che potrebbe segnare definitivamente la discesa dell'Italia tra le potenze industriali di serie C, bisogna pure chiedersi chi sono e dove stanno i responsabili della eventuale migrazione di Fiat Auto negli Stati Uniti. Non è nemmeno un'impresa facile, perché se uno immagina di metterli materialmente fianco a fianco per affrontare tutti insieme una approfondita discussione sul caso Fiat, non basterebbe ormai un palasport. Forse per deferenza nei confronti delle grandi figure del passato, come Giovanni e Gianni Agnelli, finora se n'è parlato poco, ma sembra evidente che la fuga della Fiat dall'Italia debba non poco alla famiglia proprietaria. Che all'auto deve tutto, ma che da una decina d'anni mostra chiaramente di considerare la produzione di auto come una palla al piede. Altrimenti non si spiegherebbero i modesti investimenti in ricerca e sviluppo che sono calcolati per addetto, la metà di quelli della Volkswagen; il mancato rinnovo di stabilimenti che sono ormai i più vecchi d'Europa, e il lasciare passare di mano il maggiore designer del continente, Giugiaro, senza alzare letteralmente un dito.

Accanto alla famiglia, sugli spalti del palasport dei responsabili della fuga Fiat dovrebbero esserci gli innumerevoli politici, sindacalisti, sindaci, economisti, commentatori tv che hanno salutato i piani del genere «prendere o lasciare» di Marchionne come folgoranti salti nella modernità delle relazioni industriali. Mentre si rivelano ora un goffo tentativo per recuperare sul fronte strettissimo delle condizioni di lavoro quello che si è perso sulla strada maestra dei nuovi modelli, del rinnovo radicale degli impianti, della ricerca e sviluppo. Ad onta della suddetta folla, un pò di spazio sugli spalti dei responsabili della fuga Fiat si dovrebbe ancora trovare per gli esponenti del governo che nel corso degli anni, non solo negli ultimi mesi hanno dato prova di una inettitudine totale nel concepire e attuare una politica industriale che coinvolga l'auto ma non si limiti ad essa. Come hanno saputo fare sia i maggiori paesi Ue, sia perfino alcuni dei più piccoli.

Se la Fiat diventa americana, ossia se è destinata a operare come il distributore di auto Chrysler in Italia, il problema da affrontare subito è il destino di Mirafiori e delle migliaia di posti di lavoro che vi ruotano attorno.
Certo, è sempre meglio montare delle jeep i cui pezzi principali (la piattaforma e il motore) sono costruiti in America che restare disoccupati. Ma Torino e l'Italia meritano sicuramente di meglio. Farebbe bene sperare, o quantomeno ridurrebbe il tasso collettivo di pessimismo attorno al destino dei lavoratori Fiat, se nel palasport dei responsabili della migrazione all'estero di questa grande azienda qualcuno provasse ancora a fare un tentativo per uscire da questo vicolo cieco prima di dover sottoscrivere la resa definitiva. 

giovedì 10 febbraio 2011



Marchionne: non prendetemi troppo sul serio

Fonte: il Manifesto | 10 febbraio 2011

mercoledì 9 febbraio 2011

COMUNICATO STAMPA
Fiat. Landini (Fiom): “Anche dall'Europa forti preoccupazioni per il 'modello Fiat'”

 
Il segretario generale della Fiom-Cgil, Maurizio Landini, ha rilasciato oggi la seguente dichiarazione.

 
“Anche il Coordinamento sindacale europeo della Fiat ha espresso preoccupazione che il “modello Marchionne” faccia da apripista per l'abbassamento dei diritti e il peggioramento delle condizioni di lavoro in tutta l'Ue.”
“Condividiamo il giudizio del Coordinamento europeo Fiat sul fatto che, in un periodo di profonda crisi e riorganizzazione del settore auto a livello globale, sia prioritario assicurare il lavoro con buone condizioni e garantire la prospettiva a tutti gli stabilimenti del Gruppo. Si giudica inoltre inaccettabile il tentativo di mettere in competizione i singoli siti, poiché tutto ciò porta 'ad un'erosione degli standard sociali in tutti i Paesi'.”
“Inoltre si sottolinea, come da noi denunciato da Pomigliano in poi, l'assenza da parte dell'Azienda di una vera trattativa.”
“Non possiamo che condividere le richieste del Coordinamento: 'Un chiaro aperto e positivo dialogo sociale europeo; lo stop all’attacco alle condizioni di lavoro e ai fondamentali diritti sindacali; il rispetto per gli accordi e le regole a livello nazionale ed europeo'.”
“L'accordo separato sul monte ore di ieri per tutto il settore auto e motori, con l'inserimento delle clausole di limitazione del diritto di sciopero presenti negli accordi di Pomigliano e Mirafiori confermano, se ancora ce ne fosse bisogno, l'idea della Fiat del confronto sindacale: imporre le sue condizioni con l'assenza totale di una vera mediazione tra le parti.”
“Anche il sindacato europeo esprime preoccupazione per il modello di relazioni industriali portato avanti da Fiat che cancella i contratti e le leggi. Solo da noi non si capisce, o si fa finta di non capire, la portata senza precedenti dell'attacco ai diritti in atto e il serio rischio, come da tempo la Fiom denuncia, che tutta questa operazione sia finalizzata a spostare a Detroit la testa del Gruppo, riducendo gli stabilimenti italiani a siti produttivi minori che puntino a competere solo sull'abbassamento dei diritti e il peggioramento delle condizioni di lavoro.
“La Fiom ribadisce la necessità di riaprire una vera trattativa per tutto il Gruppo Fiat. Per questo continuerà la sua battaglia.”


Fiom-Cgil/Ufficio Stampa

Roma, 9 febbraio 2011

venerdì 4 febbraio 2011

Di seguito la risposta al seguente comunicato affisso nei reparti della CNH il 2 febbraio 2011 al ritorno al lavoro dopo altri 2 giorni di cassa integrazione:

operai liberi  
Con questo breve comunicato intendiamo segnalare che quanto è accaduto la mattina del 28/1/11 davanti ai cancelli della nostra fabbrica ha davvero del clamoroso!!
Siamo un sostenuto gruppo di lavoratori, non intimiditi da una certa sigla sindacale, che come tutte le mattine si sono recati presso lo stabilimento CNH di Jesi per poter esprimere la propria intenzione lavorativa, diversa da quella dei propri colleghi scioperanti che, nella fattispecie, stazionavano davanti ai cancelli e tra i quali peraltro, non abbiamo riconosciuto molte facce note.
Quest'ultimi che avevano organizzato una notte bianca che in realtà aveva le caratteristiche di un vero e proprio presidio (picchettaggio), hanno tentato, con decisione, di impedirci l'ingresso nello stabilimento che comunque abbiamo conquistato, a fatica, e dopo piccole colluttazioni.
Un atteggiamento che intendiamo stigmattizare e segnalare perchè asolutamente antidemocratico e per nulla rispettoso dei diritti dei lavoratori che non volevano aderire allo sciopero.
A tal proposito precisiamo, anche, che durante tutta la settimana ci sono state, all'interno dello stabilimento, parecchie intimidazioni verso gruppi di lavoratori che avrebbero voluto recarsi al lavoro, ma che a fronte di questi atteggiamenti minacciosi, hanno preferito restare a casa per evitare ripercussioni sia personali che verso le proprie auto.



COMUNICATO DI RISPOSTA SULLO SCIOPERO DEL 28 GENNAIO 2011
Voi che vi definite "operai liberi" siete solo schiavi e servi di un "padrone" al quale avete venduto l'anima oltre che i diritti e la dignità, quella stessa dignità di cui Noi invece andiamo fieri.

E' la grande forza dell'indignazione, che voi certamente non conoscete, che ci ha fatto alzare quella mattina del 28 gennaio alle 2 di notte, nonostante alcuni di noi avevano smesso di lavorare alle 21 della sera prima ed altri si erano alzati alle 4 per tutta la settimana, la nostra capacità di indignarci di fronte al ricatto disumano del "vostro" padrone, alla sua arroganza e alla sua superbia.

"Il guaio è che quando si perde la capacità d’indignarsi si perde fatalmente anche quella di meravigliarsi. Si perde la capacità non solo di giudicare, ma anche di vedere, di accorgersi di quello che succede".

Non vi rendete conto che ci stanno togliendo i nostri diritti fondamentali per poter vivere una vita dignitosa, forse perchè pensate che a voi vi salvino, che non vi tocchino quel "posticello buono" che a forza di vendervi vi siete guadagnati, ma ricordatevi che quando il "padrone" se ne andrà non guarderà in faccia a nessuno e noi un altro posto dove spaccarci la schiena come la linea di montaggio forse lo troveremo ma per voi sarà difficile trovarne un altro simile a quello attuale e per i cosiddetti "colletti bianchi" , che tanto ci tenevano ad entrare quella mattina, sarà ancora più difficile, quei colletti bianchi che si muovono soltanto quando c'è da difendere il padrone e che come i parassiti vivono sulle nostre spalle che abbiamo sempre lottato anche per loro per conquistare i diritti e i contratti (anche economici...).

Non vi accorgete che il vostro "super manager" vi sta prendendo in giro, prima afferma che il costo del vostro lavoro incide soltanto per il 7% poi incredibilmente questo costo diventa fondamentale per le sorti dell'azienda, lui intanto percepisce un compenso che è circa 400 volte superiore al vostro sul quale paga soltanto il 12% di tasse mentre voi sul misero stipendio ne pagate il doppio.

"Per indignarsi occorre sapere – considerare la dismisura e l’ingiustizia, guardarsi attorno e fare comparazioni, stabilire relazioni, nessi e cause; per converso, anche l’impulso conoscitivo richiede forse una certa dose di indignazione, quasi una scossa o un impulso ad uscir-da-sé".

Noi ci stiamo provando ad uscir-da-noi per unirci a tutti quelli che la pensano come noi, forse è per questo che "non avete riconosciuto facce note" davanti ai cancelli, perchè voi siete soli ed alienati e non riuscite a capire il sentimento della solidarietà e dell'unità che ha fatto si che quella mattina fossero presenti altre realtà (studenti, associazioni, precari ed altri lavoratori) che come noi hanno ancora la capacità di indignarsi e di far valere i propri diritti, che spontaneamente si sono messi a picchettare e, senza usare violenza o atteggiamenti minacciosi (nessuna auto dei crumiri è stata toccata) ma solo con la forza delle parole - della musica - dell'odore delle bistecche e salsicce - del sapore del vin brulè, a convincervi che state dalla parte sbagliata perchè i veri "operai liberi" siamo noi: liberi di scioperare  - di picchettare - di manifestare - di divertirci - di indignarci - di reagire - di unirci.

UN OPERAIO LIBERO E INDIGNATO.

ASSEMBLEA NAZIONALE Cervia 3-4 Febbraio 2011 DOCUMENTO FINALE

clicca sul titolo per leggere il documento finale

ASSEMBLEA NAZIONALE Cervia 3-4 Febbraio 2011

  

  

  

  

  



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mercoledì 2 febbraio 2011

Diritti in cambio di cassa integrazione

Mirafiori resterà chiusa per un anno a partire dal 14 febbraio. È il primo regalo del diktat di Marchionne che, «forte» del 54% di sì al referendum (che scende al 49% tra gli operai) manda tutti a casa per 12 mesi. Il ricatto dell'uomo dei miracoli prometteva lavoro in cambio dei diritti, schiavi in mano. A Pomigliano, invece, ieri per un solo giorno è stata sospesa la cassa integrazione, che va avanti da tempo immemorabile, per un quinto dei dipendenti. Otto ore di lavoro allo stabilimento Gianbattista Vico dove un referendum-truffa (64% di sì che scende al 40% tra gli operai) simile a quello di Mirafiori, ha garantito a Marchionne la fine della democrazia operaia e sindacale. O meglio, il sogno della fine.
La Fiat ha spiegato da tutti i media, con il sostegno del governo amico, dei suoi soci imprenditori e di larga parte dell'opposizione, che serve più flessibilità, obbedienza e abbattimento dei costi del lavoro per recuperare competitività e sfondare sui mercati. Così la produzione di automobili in Italia sarebbe passata da 5-600 mila vetture a 1,5 milioni. Invece le cose non vanno secondo le promesse da mercante di Marchionne, e in cambio della rinuncia allo sciopero, alla salute, alle pause, all'elezione dei rappresentanti, le tute blu ricevono solo cassa integrazione, per chissà quanto tempo ancora.
Era scritto che sarebbe andata così ed è scritto che all'orizzonte non c'è alcuna inversione di tendenza. Al contrario, l'andamento del mercato dell'auto e l'ennesimo tonfo dei marchi Fiat, tutti tranne l'Alfa Romeo, del 27% a gennaio in Italia, con un'ulteriore riduzione della quota del Lingotto al 29%, disegna un futuro peggiore del presente. Altro che 1,5 milioni di vetture prodotte in Italia, si riaffaccia lo spettro della chiusura, non solo di Termini Imerese, ma di un secondo stabilimento.
È ovvio che gli unici a non aver colpa di questo crack sono i lavoratori della Fiat, tanto quelli che hanno votato sì quanto quelli che non si sono piegati al ricatto. Senza nuovi modelli è naturale che la Fiat vada a rotoli, e senza investimenti adeguati nella ricerca, nell'innovazione, in nuovi propulsori ecocompatibili, non ci sarà futuro per la multinazionale italiana delle quattro ruote. L'unico risultato del bombardamento di Marchionne contro i lavoratori e contro la Fiom è di natura puramente ideologica: aver diviso il suo stesso «esercito», quei «soldati» che vorrebbe trasformare in rematori obbedienti e senza diritti di una nave da guerra senza munizioni e senza armi (le automobili vendibili).
A Marchionne sta a cuore la Chrysler, non la Fiat. I suv che dice di voler fare a Mirafiori servirebbero solo a esportare in Italia gli annessi motori costruiti Oltreoceano, per rispettare gli accordi stipulati con Obama e scalare un altro pezzetto di Chrysler a danno del sindacato americano. I gargarismi sulla globalizzazione che impone a tutti la stessa legge sono l'ennesimo imbroglio di Marchionne, di chi al governo gli spiana la strada, di chi ha lasciato soli gli operai della Fiat.