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sabato 16 aprile 2011

Non ci sono più morti bianche

di LUCIANO GALLINO
La sentenza a carico dei dirigenti della ThyssenKrupp è molto dura. Su un punto fondamentale, quello di giudicare gli investimenti in tema di sicurezza consapevolmente non effettuati come prova di omicidio volontario da parte dell'amministratore delegato, la Corte ha accolto in pieno le richieste dell'accusa. Come si aspettavano familiari e compagni delle vittime. Condannando la massima autorità dell'impresa al massimo della pena proposta dai Pm, sedici anni, e cinque dirigenti a pene che vanno da dieci anni  -  un anno in più rispetto alla richiesta  -  a tredici e mezzo, la sentenza riafferma con estrema forza un principio cruciale: di lavoro non si può, non si deve morire. Per cui ogni dirigente o imprenditore che non si occupa e preoccupa a sufficienza della sicurezza dei dipendenti sui luoghi di lavoro incorre in una colpa grave. 
Anche quando non abbia contribuito direttamente all'incidente che ha ucciso qualcuno, ma in qualche modo abbia accettato che esso succedesse come effetto eventuale del suo comportamento. Come decidere di non predisporre adeguate misure di sicurezza in un impianto che di lì a qualche tempo si dovrebbe chiudere o trasferire, perché in fondo esse sarebbero, nella ratio della contabilità aziendale cui un dirigente ritiene di doversi attenere, un inutile spreco. Anche se, per evitare quello spreco, finisce che ci vanno di mezzo vite umane.
La contabilità fondata sull'idea del "non è mai successo, perché dovrebbe accadere adesso?" è molto diffusa nelle imprese di ogni dimensione. Essa contribuisce a provocare oltre mille morti l'anno, decine di migliaia di infortuni invalidanti, nonché gran numero di malattie professionali che rattristano e accorciano la vita. La sentenza ThyssenKrupp è un grosso aiuto per combattere tale cultura. Essa fa severamente presente a dirigenti e imprenditori che se quello che non sarebbe dovuto succedere poi accade davvero, perché loro non hanno preso le dovute misure precauzionali, d'ora innanzi rischiano molto.
Una pena di tal gravità non era mai stata avanzata nelle numerose cause derivanti da incidenti sul lavoro che si sono susseguite negli scorsi decenni. Poiché gravissime erano le colpe degli imputati, si può essere soddisfatti perché giustizia è stata fatta, anche se essa non riduce né l'entità della tragedia né il dolore delle famiglie. Ma v'è un aspetto di questa sentenza che va al di là del senso di restituzione di qualcosa che era dovuto alle vittime, ai loro compagni, ai familiari. Negli ultimi decenni il mondo del lavoro ha pagato un prezzo elevatissimo in termini di compressione dei salari, peggioramento delle condizioni di lavoro, erosione dei diritti acquisiti, oltre che di vittime di incidenti e malattie professionali che la legge sulla sicurezza nei posti di lavoro dovrebbe limitare, se negli ultimi anni non fosse stata indebolita in vari modi dal legislatore. 
Questa sentenza - che arriva una volta, ma può essere una volta determinante; e verte su un caso specifico, che può però diventare generale - afferma che tutto ciò non è giusto. E che tutti i suoi elementi si tengono, per cui se si attenta a uno si compromettono anche gli altri. Da ultimo è il lavoro a creare benessere per tutti. E' la base su cui si regge sia la ricchezza privata che quella pubblica. Merita un ampio riconoscimento sociale - lo dice perfino la Costituzione. Perciò né il lavoro né il lavoratore dovrebbero essere trattati come una merce che si usa se serve, si butta da parte se non serve, si cerca di pagare il meno possibile, e non importa poi troppo se chi presta il lavoro ci rimette la vita perché l'impresa, in nome della globalizzazione e del mondo che è cambiato, deve anzitutto far quadrare il bilancio. Dopo la sentenza di Torino, un simile modo di ragionare dovrebbe ridurre un po' la sua iniqua presa, nel sistema economico non meno che in politica.

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