anonymous
I
PEGGIORI CAPI SONO STATI I MIEI MIGLIORI MAESTRI
un’indagine sulla de-culturizzazione aziendale e sulla dittatura
dell’ignoranza, sulla generale arretratezza della “cultura manageriale” alla
CNH di Jesi.
una rifondazione metodologica ad uso dei di®ligenti
Prefazione
“ la crescita
è un cammino, è un cammino nel divenire…; non si cammina solo per arrivare, ma
anche per vivere, mentre si cammina”
Questo non vuole essere un opuscolo su come fare le cose
meglio e neppure un manuale per gente che voglia “rattoppare” la propria
organizzazione; al contrario, è un appello appassionato a reinventare il
management come lo conosciamo, a ripensare le nostre ipotesi sulla vita
professionale.
Un’indagine sull’ignoranza aziendale come problema
culturale, sulle cause più o meno occulte, sulle sue forme più o meno evidenti
e soprattutto sulle conseguenze per il futuro della CNH di Jesi.
Vuole essere un momento di riflessione per una
organizzazione adeguata al futuro e adatta ai lavoratori. Ho cercato di
sfidarmi sui temi più delicati ripromettendomi ogni volta di essere più onesto
che abile, non so se ci sono sempre riuscito. Mi auguro di essere considerato
solo uno dei tanti e non un “atipico” o uno “strano” nella migliore delle
definizioni.
E’ mio compito incuriosire chi legge ma anche chiedersi,
perché no? Affermare che il nuovo, la proposta “out of the box”, quella che
apparentemente porta su strade che non vanno da nessuna parte, è possibile.
E’ ancora compito di queste riflessioni chiarire come per
agire in una simile prospettiva la direzione aziendale necessiti di una
cassetta degli attrezzi ben diversa da quella sino ad ora utilizzata che brilla
per il suo omologante efficientismo. Una cassetta che accolga e valorizzi oltre
alla strumentazione tradizionale il pensiero, il benessere e la bellezza. Una
cassetta che consenta di fare dell’impresa una “buona impresa”.
Tutto ha inizio da una serie di domande: quali sono le
sfide fondamentali, quelle dove si gioca il tutto per tutto, che determineranno
il destino della nostra organizzazione nei prossimi anni?
Come fare ad attivare la collaborazione in azienda?
Sicuramente è necessario cominciare a guardare la propria organizzazione più da
vicino e più a fondo per capire quanto i processi, le strutture e le persone
che vi lavorano siano pronte al cambiamento.
Un’azienda troppo burocratica, troppo lenta, troppo
vecchia; noi siamo qui adesso, e vogliamo andare la. Come ci andiamo? Quale
direzione deve prendere il mio muovermi verso qualcosa? Quale risultato deve
produrre il mio fare? Trovare una risposta significa rimettere al centro la
questione del metodo. Trovare i punti di riferimento giusti, sapersi muovere in
un contesto con complessità crescente, ampliare la gamma delle strade che
impariamo a percorrere: è questo a fare la differenza.
Un’organizzazione può morire per eccesso di leadership.
Troppe persone che comandano e poche che eseguono. L’azienda ha bisogno di
pochi, bravi e competenti “comandanti” e molte persone che agiscono, che
operano, che fanno.
La collaborazione è una risposta alla domanda sul metodo
che punta a rendere più potente la nostra capacità interpretativa e più
coerenti le azioni che mettiamo in campo. Un metodo che deriva da una visione
e, per portare risultati, richiede fiducia, adesione e una ricerca continua. La
direzione da prendere allora non è più solo una questione personale ma diventa
collettiva.
In questa dimensione i contributi che ciascuno porta sono
essenziali, favorire in noi stessi e negli altri l’attitudine ad un pensiero
che include e, non , che elimina e che esclude.
Trasformare in una risorsa ciò che percepiamo come un limite diventa dunque una condizione
necessaria per raggiungere l’eccellenza e mantenerla nel tempo.
Personalmente credo che sia cruciale individuare e
sviluppare la talentuosità di ogni singola persona che lavora, perché mai come
adesso abbiamo bisogno dello sforzo di tutti e della competenza diffusa, che
garantisce continuità di prestazione, piuttosto che eccezionalità momentanea.
I capi che dovrebbero gestire questo cambiamento e
coglierne le opportunità, sono persone spesso confuse e disorientate. Persone
che faticano talvolta a trovare idee, motivazioni e comportamenti che possano
portare benefici e risultati all’azienda. I loro percorsi di maturazione sono
diversi in relazione all’età anagrafica, alla cultura scolastica, all’anzianità
aziendale. Come diversi sono i comportamenti e gli atteggiamenti che dovrebbero
esprimere il più elevato livello di coerenza con i valori dichiarati. Certo su
tutto pesano le pressioni della direzione volte a garantire o incrementare
l’economicità della gestione di impresa, non tenendo conto che le aree di
criticità sono di fatto fisiologiche in quanto legate alla dinamica del vivere
in azienda.
Non è difficile immaginare i problemi e le resistenze
all’evoluzione di una relazione che si ancora a elementi psicologici e
culturali complessi e a tutto l’armamentario di luoghi comuni. Per i capi si
tratta di accettare un confronto che può mettere in discussione ruolo, immagine
di se e status, situazione organizzativa in cui ci si trova ad operare. I
modelli e gli schemi di una CNH sostanzialmente “vallettiana” che vede la
funzione ancorata ad una visione chiusa e autoreferenziale, non reggono l’urto
dell’impatto.
In questo settore sociale di “disgraziati” che ricercano
una propria identità nel lavoro, permane la vecchia e reazionaria collocazione
antioperaia, la dequalificazione e delegittimazione del comando.
L’evoluzione della figura del capo e le nuove
responsabilità, richiederebbe una valutazione non solo per le competenze
tecniche -se sono presenti - ma anche in base alla loro capacità di
gestire le persone e farle crescere.
I capi, quanto più sono insicuri di sé e dei modi della
loro carriera, tanto meno tollerano delusioni.
E così, meglio il controllo stretto, senza spazi per
inutili divagazioni, disposizioni. Occupare tutto, dei propri collaboratori, il
corpo e la mente. Altroché insegnare.
Il vero maestro, invece, vive sapendo che ci sarà un
allievo che prima o poi lo sostituirà: e questo dovrebbe essere la misura del
suo successo. E’ questo che intendono valorizzazione della professionalità
degli operai?
Pur scontrandosi con le difficoltà dell’attuale contesto
socio-economico, le maestranze continuano a considerare il lavoro un fattore
determinante per la propria realizzazione personale.
Se il management CNH sapesse quale razza di potenziale
potrebbe essere liberato nella nostra azienda solamente permettendo che a
condurre le persone finissero i soggetti più adatti a farlo, i costi potrebbero
essere radicalmente abbattuti, i prezzi di vendita potrebbero essere abbassati
e la competitività così guadagnata solleverebbe le sorti dell’azienda.
La Direzione è ossessionata dal risultato a breve; poco
coinvolgente, quasi inaccessibile e satura di attivismo un po’ nevrotico che
deriva dalla scarsa attitudine alla delega, per lo più incapace di trasmettere
significati e valori, scarsamente o per nulla interessati alle crescita umana
dei propri collaboratori, pronti a tradire le persone al minimo sentore di
compromissione personale.
Cattivi manager sono sempre il prodotto di una cattiva
imprenditorialità.
Quando un cattivo direttore è insediato al suo posto e
può agire indisturbato perché nessuno più alto di lui è in grado di capirne il
potenziale nocivo e di correggerne l’azione, egli tenderà a circondarsi di
persone simili a lui e a promuovere a posti di responsabilità le persone
sbagliate. In questo modo tutta l’azienda rimarrà invischiata in modi di
pensare e di agire non funzionali a quello sviluppo che molti attendono.
I vizi sono tutti qui. Clientelismo e affini, familismo
amorale e non, ogni forma possibile di nepotismo. E poi cooptazioni,
raccomandazioni, segnalazioni più o meno abusive.
La meritocrazia sembra, semplicemente, non pervenuta. In
fondo siamo una repubblica fondata sulla spintarella.
Tutto questo processo ha assunto la forma di un
individualismo competitivo, cinico e ottuso, nonché quella, ad esso
complementare, del gregarismo.
Al di là degli slogan, che tappezzano l’intera azienda,
di fatto per fare carriera competenza, merito, valutazione dei risultati non contano.
L’illusione di delegare a processi e metodi il “far
accadere le cose” è arrivata al capolinea.
L’articolazione delle cose è aumentata, a tal punto che
le risorse impiegate per rispettare gli adempimenti, normativi e processuali,
sono di gran lunga maggiori di quelle dedicate a far ciò che serve. Insomma,
l’uso di norme, di metodi, processi, standard, ha tradito la sua originaria
finalità di contribuire ad affrontare la complessità.
Abbiamo rinunciato a considerare noi stessi come
protagonisti della storia aziendale, e al nostro posto abbiamo collocato un
solo altro soggetto: la tecnica.
E’ urgente cambiare direzione: da una parte riportarsi al
compito primario delle cose, semplificando, tagliando, riportandosi
all’essenziale, dall’altra recuperare la centralità della persona, uscendo
dalla riduttiva definizione di risorsa e ripristinando il riconoscimento della
totalità delle dimensioni umane; attivare quindi risorse ed energie disponibili
assumendo tutti i rischi e tutte le opportunità dovute al riconoscimento di
emotività e affettività; utilizzare la leva della fiducia mettendo in atto
delega, condivisione, insomma responsabilizzazione.
Il vantaggio competitivo deriva dalla competenza di
generare intuizioni strategiche in modo sistematico ed applicarle al processo
di innovazione.
Si preferisce, invece, un approccio basato su modelli
analitici così sofisticati che finiscono o per paralizzare i processi
decisionali o per generare inverosimili previsioni su cui la stessa società si
impegna senza di fatto generare vera innovazione.
Sono nati mille progetti, grandi e piccoli, diffusi
ovunque. Molti incapaci di sopravvivere a loro stessi, perché manca una
struttura reale. Non nel budget, ma nella massa critica che con faciloneria e
illusione le aveva proposte.
Gli appelli al cambiamento vengono spesso accolti con un
falso entusiasmo, questo diffuso scetticismo è la ragione principale per cui
chiunque voglia avviare un processo di cambiamento deve evitare gli slogan
vuoti e puntare invece su argomentazioni molto concrete e convincenti.
Per tutti è indispensabile rompere i propri schemi di
comportamento, abbandonare le vecchie abitudini per abbracciarne di nuove vincenti.
Spesso però l’impresa si muove con il paraocchi, sia per
evitare distrazioni da un percorso predefinito, sia per sottrarsi al fascino
discreto del pensiero che porterebbe il management di fronte a se stesso e
chiuderebbe le porte delle stanze del dubbio tanto temute dall’efficientismo
spinto.
Dov’è la voce di buon senso, che sappia mostrarci la
strada per uscire dal marasma? In fondo al tunnel, appare
sempre uno spiraglio di luce; con il tempo, anche alla CNH, la logica trionferà
!!!
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Sono d'accordo con quanto scritto, questi personaggi attualmente sono il vero problema dello stabilimento, vedi ultimi avvenimenti, alcuni dovrebbero andare a casa, sono capaci solo di prendere meriti sopra le spalle dei lavoratori, qualcuno viene anche da un passato Cobas, ora vero ruffiano aziendale.....complimenti!!!!!
RispondiEliminaAlmeno qualcuno vede che il mondo è cambiato altri portano i paraocchi come i (somari).
RispondiEliminaragazzi scusate sapete se la fiat riconosce assemblee ancora? penso di si ma cisl e uil vorrebbero cancellarle a quanto pare.......... neanche quello che rimane facciamo più e quello che avevamo hanno tolto. cosa significhi sindacato per queste sigle rimane un rebus........ e il nuovo contratto? un giorno dissero che sarebbero arrivati dei soldi per coprire ricatti.....o meglio poco che niente......NO NIENTE! a parte i 4 milioni di euro per sergetto e per gli azionisti vari altri milioni sembrerebbe non ci rimanga molto....... se la lotta non paga figuriamoci continuare a farsi ricattare.
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