Pagine

lunedì 10 febbraio 2014

Riflessioni di un lavoratore..



  
anonymous
   
I PEGGIORI CAPI SONO STATI I MIEI MIGLIORI MAESTRI

un’indagine sulla de-culturizzazione aziendale e sulla dittatura dell’ignoranza, sulla generale arretratezza della “cultura manageriale” alla CNH di Jesi.

 una rifondazione metodologica ad uso dei di®ligenti


Prefazione

“ la crescita è un cammino, è un cammino nel divenire…; non si cammina solo per arrivare, ma anche per vivere, mentre si cammina”

Questo non vuole essere un opuscolo su come fare le cose meglio e neppure un manuale per gente che voglia “rattoppare” la propria organizzazione; al contrario, è un appello appassionato a reinventare il management come lo conosciamo, a ripensare le nostre ipotesi sulla vita professionale.

Un’indagine sull’ignoranza aziendale come problema culturale, sulle cause più o meno occulte, sulle sue forme più o meno evidenti e soprattutto sulle conseguenze per il futuro della CNH di Jesi.

Vuole essere un momento di riflessione per una organizzazione adeguata al futuro e adatta ai lavoratori. Ho cercato di sfidarmi sui temi più delicati ripromettendomi ogni volta di essere più onesto che abile, non so se ci sono sempre riuscito. Mi auguro di essere considerato solo uno dei tanti e non un “atipico” o uno “strano” nella migliore delle definizioni. 

E’ mio compito incuriosire chi legge ma anche chiedersi, perché no? Affermare che il nuovo, la proposta “out of the box”, quella che apparentemente porta su strade che non vanno da nessuna parte, è possibile.

E’ ancora compito di queste riflessioni chiarire come per agire in una simile prospettiva la direzione aziendale necessiti di una cassetta degli attrezzi ben diversa da quella sino ad ora utilizzata che brilla per il suo omologante efficientismo. Una cassetta che accolga e valorizzi oltre alla strumentazione tradizionale il pensiero, il benessere e la bellezza. Una cassetta che consenta di fare dell’impresa una “buona impresa”.

Tutto ha inizio da una serie di domande: quali sono le sfide fondamentali, quelle dove si gioca il tutto per tutto, che determineranno il destino della nostra organizzazione nei prossimi anni? 

Come fare ad attivare la collaborazione in azienda? Sicuramente è necessario cominciare a guardare la propria organizzazione più da vicino e più a fondo per capire quanto i processi, le strutture e le persone che vi lavorano siano pronte al cambiamento.

Un’azienda troppo burocratica, troppo lenta, troppo vecchia; noi siamo qui adesso, e vogliamo andare la. Come ci andiamo? Quale direzione deve prendere il mio muovermi verso qualcosa? Quale risultato deve produrre il mio fare? Trovare una risposta significa rimettere al centro la questione del metodo. Trovare i punti di riferimento giusti, sapersi muovere in un contesto con complessità crescente, ampliare la gamma delle strade che impariamo a percorrere: è questo a fare la differenza.

Un’organizzazione può morire per eccesso di leadership. Troppe persone che comandano e poche che eseguono. L’azienda ha bisogno di pochi, bravi e competenti “comandanti” e molte persone che agiscono, che operano, che fanno.

La collaborazione è una risposta alla domanda sul metodo che punta a rendere più potente la nostra capacità interpretativa e più coerenti le azioni che mettiamo in campo. Un metodo che deriva da una visione e, per portare risultati, richiede fiducia, adesione e una ricerca continua. La direzione da prendere allora non è più solo una questione personale ma diventa collettiva.

In questa dimensione i contributi che ciascuno porta sono essenziali, favorire in noi stessi e negli altri l’attitudine ad un pensiero che include e, non , che elimina e che esclude.

Trasformare in una risorsa ciò che percepiamo come  un limite diventa dunque una condizione necessaria per raggiungere l’eccellenza e mantenerla nel tempo.

Personalmente credo che sia cruciale individuare e sviluppare la talentuosità di ogni singola persona che lavora, perché mai come adesso abbiamo bisogno dello sforzo di tutti e della competenza diffusa, che garantisce continuità di prestazione, piuttosto che eccezionalità momentanea.

I capi che dovrebbero gestire questo cambiamento e coglierne le opportunità, sono persone spesso confuse e disorientate. Persone che faticano talvolta a trovare idee, motivazioni e comportamenti che possano portare benefici e risultati all’azienda. I loro percorsi di maturazione sono diversi in relazione all’età anagrafica, alla cultura scolastica, all’anzianità aziendale. Come diversi sono i comportamenti e gli atteggiamenti che dovrebbero esprimere il più elevato livello di coerenza con i valori dichiarati. Certo su tutto pesano le pressioni della direzione volte a garantire o incrementare l’economicità della gestione di impresa, non tenendo conto che le aree di criticità sono di fatto fisiologiche in quanto legate alla dinamica del vivere in azienda.  

Non è difficile immaginare i problemi e le resistenze all’evoluzione di una relazione che si ancora a elementi psicologici e culturali complessi e a tutto l’armamentario di luoghi comuni. Per i capi si tratta di accettare un confronto che può mettere in discussione ruolo, immagine di se e status, situazione organizzativa in cui ci si trova ad operare. I modelli e gli schemi di una CNH sostanzialmente “vallettiana” che vede la funzione ancorata ad una visione chiusa e autoreferenziale, non reggono l’urto dell’impatto.

In questo settore sociale di “disgraziati” che ricercano una propria identità nel lavoro, permane la vecchia e reazionaria collocazione antioperaia, la dequalificazione e delegittimazione del comando.

L’evoluzione della figura del capo e le nuove responsabilità, richiederebbe una valutazione non solo per le competenze tecniche  -se sono presenti -  ma anche in base alla loro capacità di gestire le persone e farle crescere.  

I capi, quanto più sono insicuri di sé e dei modi della loro carriera, tanto meno tollerano delusioni.

E così, meglio il controllo stretto, senza spazi per inutili divagazioni, disposizioni. Occupare tutto, dei propri collaboratori, il corpo e la mente. Altroché insegnare.

Il vero maestro, invece, vive sapendo che ci sarà un allievo che prima o poi lo sostituirà: e questo dovrebbe essere la misura del suo successo. E’ questo che intendono valorizzazione della professionalità degli operai?

Pur scontrandosi con le difficoltà dell’attuale contesto socio-economico, le maestranze continuano a considerare il lavoro un fattore determinante per la propria realizzazione personale.              

Se il management CNH sapesse quale razza di potenziale potrebbe essere liberato nella nostra azienda solamente permettendo che a condurre le persone finissero i soggetti più adatti a farlo, i costi potrebbero essere radicalmente abbattuti, i prezzi di vendita potrebbero essere abbassati e la competitività così guadagnata solleverebbe le sorti dell’azienda.

La Direzione è ossessionata dal risultato a breve; poco coinvolgente, quasi inaccessibile e satura di attivismo un po’ nevrotico che deriva dalla scarsa attitudine alla delega, per lo più incapace di trasmettere significati e valori, scarsamente o per nulla interessati alle crescita umana dei propri collaboratori, pronti a tradire le persone al minimo sentore di compromissione personale.

Cattivi manager sono sempre il prodotto di una cattiva imprenditorialità.

Quando un cattivo direttore è insediato al suo posto e può agire indisturbato perché nessuno più alto di lui è in grado di capirne il potenziale nocivo e di correggerne l’azione, egli tenderà a circondarsi di persone simili a lui e a promuovere a posti di responsabilità le persone sbagliate. In questo modo tutta l’azienda rimarrà invischiata in modi di pensare e di agire non funzionali a quello sviluppo che molti attendono.

I vizi sono tutti qui. Clientelismo e affini, familismo amorale e non, ogni forma possibile di nepotismo. E poi cooptazioni, raccomandazioni, segnalazioni più o meno abusive.

La meritocrazia sembra, semplicemente, non pervenuta. In fondo siamo una repubblica fondata sulla spintarella.

Tutto questo processo ha assunto la forma di un individualismo competitivo, cinico e ottuso, nonché quella, ad esso complementare, del gregarismo.

Al di là degli slogan, che tappezzano l’intera azienda, di fatto per fare carriera competenza, merito, valutazione dei risultati non contano.

L’illusione di delegare a processi e metodi il “far accadere le cose” è arrivata al capolinea.

L’articolazione delle cose è aumentata, a tal punto che le risorse impiegate per rispettare gli adempimenti, normativi e processuali, sono di gran lunga maggiori di quelle dedicate a far ciò che serve. Insomma, l’uso di norme, di metodi, processi, standard, ha tradito la sua originaria finalità di contribuire ad affrontare la complessità.

Abbiamo rinunciato a considerare noi stessi come protagonisti della storia aziendale, e al nostro posto abbiamo collocato un solo altro soggetto: la tecnica.

E’ urgente cambiare direzione: da una parte riportarsi al compito primario delle cose, semplificando, tagliando, riportandosi all’essenziale, dall’altra recuperare la centralità della persona, uscendo dalla riduttiva definizione di risorsa e ripristinando il riconoscimento della totalità delle dimensioni umane; attivare quindi risorse ed energie disponibili assumendo tutti i rischi e tutte le opportunità dovute al riconoscimento di emotività e affettività; utilizzare la leva della fiducia mettendo in atto delega, condivisione, insomma responsabilizzazione.

Il vantaggio competitivo deriva dalla competenza di generare intuizioni strategiche in modo sistematico ed applicarle al processo di innovazione.

Si preferisce, invece, un approccio basato su modelli analitici così sofisticati che finiscono o per paralizzare i processi decisionali o per generare inverosimili previsioni su cui la stessa società si impegna senza di fatto generare vera innovazione.  

Sono nati mille progetti, grandi e piccoli, diffusi ovunque. Molti incapaci di sopravvivere a loro stessi, perché manca una struttura reale. Non nel budget, ma nella massa critica che con faciloneria e illusione le aveva proposte.

Gli appelli al cambiamento vengono spesso accolti con un falso entusiasmo, questo diffuso scetticismo è la ragione principale per cui chiunque voglia avviare un processo di cambiamento deve evitare gli slogan vuoti e puntare invece su argomentazioni molto concrete e convincenti.

Per tutti è indispensabile rompere i propri schemi di comportamento, abbandonare le vecchie abitudini per abbracciarne di nuove vincenti.
Spesso però l’impresa si muove con il paraocchi, sia per evitare distrazioni da un percorso predefinito, sia per sottrarsi al fascino discreto del pensiero che porterebbe il management di fronte a se stesso e chiuderebbe le porte delle stanze del dubbio tanto temute dall’efficientismo spinto.

Dov’è la voce di buon senso, che sappia mostrarci la strada per uscire dal marasma? In fondo al tunnel, appare sempre uno spiraglio di luce; con il tempo, anche alla CNH, la logica trionferà !!!
.