L’Amministratore delegato Sergio Marchionne ha annunciato che il gruppo Fiat-Chrysler, una volta che fosse interamente unificato, potrebbe stabilire la propria sede legale negli Stati Uniti. Sarebbe un fatto senza precedenti. Non si ricorda infatti un altro grande costruttore, di quelli che hanno fatto la storia dell'automobile, che abbia de-localizzato non solo il proprio braccio produttivo, ma anche la propria testa, gli enti che decidono e guidano tutto il resto di un grande gruppo nel mondo. Toyota e Volkswagen, Citroen e Renault, General Motors e Ford producono milioni di auto in paesi terzi, ma il quartiere generale, il cuore della ricerca e sviluppo, il controllo gestionale e finanziario restano ben saldi nel paese d'origine.
Sarebbe un grave smacco per Torino, per il Piemonte e per tutto il Paese se Fiat cambiasse nazionalità. L'Italia resterebbe con una sola grande industria manifatturiera, la Finmeccanica, che per il 40 per cento produce armamenti, non esattamente il tipo di produzione di cui un paese possa andare fiero, anche se permette di realizzare buoni utili.
Questo in un momento in cui l'industria automobilistica è dinanzi a sfide, tipo la mobilità sostenibile, che potrebbero cambiare profondamente la sua struttura produttiva ed i rapporti con altri settori che cominciano seriamente a occuparsi di uno dei maggiori temi da affrontare per evitare il suicidio delle città causa collasso del traffico.
Inutile illudersi in merito a ciò che resterebbe a Torino, nel caso che la testa di Fiat Auto se ne vada a Auburn Hills o a Detroit. Il Centro Ricerche Fiat, da cui sono uscite alcune delle più importanti innovazioni degli ultimi anni, in specie, nel campo dei motori, sarebbe prima o poi destinato a seguirla, insieme con i designer, i tecnici che progettano i sistemi base di un'auto, gli esperti di autoelettronica. Quanto ai fornitori di componenti, potranno sperare di trovare nuovi clienti tra i grandi gruppi europei ed extraeuropei che continueranno a costruire milioni di auto in ambito Unione europea gestendo con mano sicura la produzione dalle loro sedi nazionali.
È un esercizio sgradevole a farsi, ma dinanzi a un evento che potrebbe segnare definitivamente la discesa dell'Italia tra le potenze industriali di serie C, bisogna pure chiedersi chi sono e dove stanno i responsabili della eventuale migrazione di Fiat Auto negli Stati Uniti. Non è nemmeno un'impresa facile, perché se uno immagina di metterli materialmente fianco a fianco per affrontare tutti insieme una approfondita discussione sul caso Fiat, non basterebbe ormai un palasport. Forse per deferenza nei confronti delle grandi figure del passato, come Giovanni e Gianni Agnelli, finora se n'è parlato poco, ma sembra evidente che la fuga della Fiat dall'Italia debba non poco alla famiglia proprietaria. Che all'auto deve tutto, ma che da una decina d'anni mostra chiaramente di considerare la produzione di auto come una palla al piede. Altrimenti non si spiegherebbero i modesti investimenti in ricerca e sviluppo che sono calcolati per addetto, la metà di quelli della Volkswagen; il mancato rinnovo di stabilimenti che sono ormai i più vecchi d'Europa, e il lasciare passare di mano il maggiore designer del continente, Giugiaro, senza alzare letteralmente un dito.
Accanto alla famiglia, sugli spalti del palasport dei responsabili della fuga Fiat dovrebbero esserci gli innumerevoli politici, sindacalisti, sindaci, economisti, commentatori tv che hanno salutato i piani del genere «prendere o lasciare» di Marchionne come folgoranti salti nella modernità delle relazioni industriali. Mentre si rivelano ora un goffo tentativo per recuperare sul fronte strettissimo delle condizioni di lavoro quello che si è perso sulla strada maestra dei nuovi modelli, del rinnovo radicale degli impianti, della ricerca e sviluppo. Ad onta della suddetta folla, un pò di spazio sugli spalti dei responsabili della fuga Fiat si dovrebbe ancora trovare per gli esponenti del governo che nel corso degli anni, non solo negli ultimi mesi hanno dato prova di una inettitudine totale nel concepire e attuare una politica industriale che coinvolga l'auto ma non si limiti ad essa. Come hanno saputo fare sia i maggiori paesi Ue, sia perfino alcuni dei più piccoli.
Se la Fiat diventa americana, ossia se è destinata a operare come il distributore di auto Chrysler in Italia, il problema da affrontare subito è il destino di Mirafiori e delle migliaia di posti di lavoro che vi ruotano attorno.
Certo, è sempre meglio montare delle jeep i cui pezzi principali (la piattaforma e il motore) sono costruiti in America che restare disoccupati. Ma Torino e l'Italia meritano sicuramente di meglio. Farebbe bene sperare, o quantomeno ridurrebbe il tasso collettivo di pessimismo attorno al destino dei lavoratori Fiat, se nel palasport dei responsabili della migrazione all'estero di questa grande azienda qualcuno provasse ancora a fare un tentativo per uscire da questo vicolo cieco prima di dover sottoscrivere la resa definitiva.
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