JESI. Me ne rendo conto solo adesso che sto per arrivare a Jesi nella fabbrica della Fiat-Cnh dove la Fiom delle Marche ha organizzato la "Notte rossa": sono ormai dieci anni che non scrivo più fiction ma soprattutto "racconti dal vero", e molti di lavoro nei posti più diversi dell'Italia. Gli operai morti di amianto nei cantieri navali di Monfalcone, quelli del disastro della Mecnavi di Ravenna, i cinesi di Prato, i pachistani calzaturieri di Civitanova, i mobbizzati alla Micron di Avezzano, un musicista aggredito dagli orchestrali all'Arena di Verona, i raccoglitori di pomodori del foggiano o di Castel Volturno, i minatori pugliesi che mi hanno raccontato la tragedia di Marcinelle, ma anche i postini e i maestri dell'Irpinia orientale, gli attori precari, i camionisti, le materassaie morte a Montesano della Marcellana, persino la storia esemplare di Guerriero Rossi, un sindacalista della Tod's al quale il padrone Diego Della Valle ha letteralmente fatto le scarpe licenziandolo in tronco solo perché gli aveva scritto una lettera aperta. È accaduto la prima volta nel 2001, poi non ho smesso più questo solitario pellegrinaggio fatto a piedi, sopra i treni, in corriera, raggiungendo i luoghi più diversi in macchina o con mezzi di fortuna. Così ora sono qui, alle tre del mattino, dove inizia un'altra di queste storie che nessuno racconta, una narrazione che nessuno colpevolmente vuole più fare, mentre i giornali e i magazine padronali ripetono, all'incontrario, l'epica patinata dei capitani d'industria. Dove li avevano fatti sparire gli operai? Cancellati dalla pornografia televisiva, scherniti come fossero Mammut o pezzi di modernariato, oggi si giocano l'ultima partita, quella della dignità, in un paese spaventosamente affogato nell'orgia del potere e nell'impotenza di una sinistra balbuziente.
Quando arrivo nella zona industriale di Jesi è ancora buio pesto. Scorgo sulla via dove transito, che naturalmente è via Giovanni Agnelli, un assembramento di persone. Sono le tre del
mattino ma già saranno almeno in duecentocinquanta davanti allo stabilimento dove si producono trattori New Holland. Sono quasi tutti giovani, molte le ragazze, con figli a carico, i mutui da pagare, la vita incerta di questi nostri anni terribili. Al centro della strada un gazebo con le bandiere, di lato un fuoco che arde in un braciere, dietro il barbecue con la carbonella. Stanno arrostendo carne alla brace, la notte sarà lunga. Dovrebbe arrivare anche Marino Severini, voce barricadiera dei Gang. Davanti ai cancelli gli striscioni e un cartello con una delle copertine del nostro giornale: l'immagine ritrae Bonanni e Angeletti, sotto c'è il titolo perfetto «le mosche del capitale», con aggiunto in alto, scritto a pennarello, «servi». Un titolo che è quello di un romanzo quanto mai attuale di Paolo Volponi, marchigiano di Urbino, a un tiro di schioppo da qui. Di quest'epoca odiosa «dopo Cristo», così come l'ha definita un "geniale" pensatore della qualità globale (ha sostituito solo come vezzo il maglione agli orologi allacciati sui polsini, ma la razza è la stessa), aveva sentenziato malinconico: «Il racconto è finito. La narrazione, se vuole, è il bancone del supermercato. Lei non potrà mai raccontare niente di me!». Lui l'aveva conosciuto il mondo Fiat, se non altro per averci lavorato, se non altro per essere stato espulso nel 1975 solo perché aveva fatto dichiarazione di voto al Pci. Dal furgoncino con il gruppo elettrogeno la musica allestito dal Csoa Tnt, vanno uno dietro l'altro Jannacci, la Bella ciao dei Modena. Incontro il Segretario regionale della Fiom Ciarrocchi, che è già davanti al cancello a picchettare. Ritrovo Peppone, con la barba bianchissima e folta da patriarca, che non vedo da anni. Arriva Giampiero, che mi abbraccia e ci invita entrambi a bere un Rosso Conero denso, molto profumato. Serve a combattere il freddo, che qui si fa sentire.
«Questa è una fabbrica di novecentocinquanta operai, noi abbiamo un centinaio di iscritti, ma nelle elezioni delle Rsu siamo il primo sindacato», dice Ciarrocchi orgoglioso. Tra poco, alle cinque, smonteranno gli operai del turno di notte, si faranno avanti quelli del successivo. Quando cominciano ad arrivare, con i fagotti dove tengono le merende, stretti nei giacconi, un muro di corpi protegge il cancello dell'entrata. Un ragazzo giovane vuole passare, c'è un sapiente lavoro di spalle per cercare di farlo fermare a discutere. Uno gli dice «ci vogliono servi, se entri sei un servo anche tu». Lui risponde che è un interinale, insiste, lo lasciano andare. Subito dopo è il turno di una ragazza giovane. Spaurita avanza titubante, ma sorride. I compagni di lavoro ai picchetti la riconoscono, la chiamano per nome. Uno piuttosto svelto di lingua sui trent'anni le dice: «Vengo dalla Caterpillar, anche io ho i figli come te. Dai, non entrare, oggi è un giorno importante». La tipa è indecisa, poi alla fine decide: «Va bene, basta, vado via», e fila verso l'utilitaria. Segue un applauso, qualcuno la ringrazia. La scena si ripete poco dopo quando si presentano ai cancelli altri tre ragazzi. Uno di loro è più spavaldo, anche più alto e corpulento, cerca di scansare gli operai e di trovare un varco. Il "corpo a corpo" tra compagni di lavoro è drammatico, sento in questo scontro tutto sommato pacifico di arti, muscoli e parole, la difficoltà comunque sofferta di una scelta. Salgono le urla di «crumiri!», un vocabolo che sembrava essere caduto in disuso, prescritto dal pensiero dominante dell'epoca. Poi il tipo alto riesce ad entrare in fabbrica, apostrofato dagli insulti potenti dei presenti. Dice Ciarrocchi che non sono entrati più di dieci operai su 350, non riusciranno neanche ad avviare la produzione.
Sono quasi le sei, fa molto freddo, mi invitano a leggere. Prima di me parla una giovane rappresentante della Fiom, dice a tutti che è molto contenta, lo sciopero è riuscito, «è stata una giornata epica», ripete commossa, proprio così. Penso che se c'è davvero ancora qualcosa di epico è questa irriducibile classe operaia italiana. Continuano a presidiare le fabbriche, a fare gli scioperi della fame, sono saliti sui tetti e sulle gru, ma non si sono piegati ai nuovi padroni e alla loro volontà di potenza. Così mi viene in mente di leggere le poesie di un poeta metalmeccanico nato a Fermo, nella mia città, emigrato a Oslo negli anni '50, Luigi Di Ruscio, una delle voci più autentiche della poesia italiana contemporanea. Leggo un testo sulla fabbrica dove lui si descrive: «Inizia il giro delle ore sulla trafilatrice/che mi aspetta con la bocca spalancata/inizia la mia danza il mio spettacolo». Poi ne leggo un'altra molto conosciuta, di rara forza espressiva, una specie di manifesto della condizione operaia universale: «Chiudere un porco vero nel reparto/non un porco normale/un porco insomma, un maiale insomma/chiuderlo nel reparto per otto ore/vediamo come reagisce l'associazione protezione animali/vediamo come reagisce a questa estrema crudeltà il maiale/schianta strozza impazzisce s'indemonia» (...) «chi lavora in reparto/ è stato selezionato per tutta una cosa diversa/resisti allo schianto per tutta una stagione/sei un animale diverso farti a pezzi non serve a niente» (...) «chi lavora in una fabbrica per infinite ore consecutive/può diventare molto pericoloso/controllate tutti i telefoni/apri il suo cervello vedi cosa medita/misura la sua rabbia/aspettati che scoppi». Seguono gli applausi. Se li merita tutti.
Alle otto è già tutto chiaro, comincio a scorgere gli immediati dintorni. La grande fabbrica adesso è più visibile, silenziosa e spettrale, i guardiani in divisa sono sempre composti al loro posto come sentinelle. Varcato questo cancello finisce il nostro mondo e ne comincia un altro. Con regole diverse, con leggi diverse, anche qui dopo l'accordo di Mirafiori si sono azzerati i diritti fondamentali, si è tornati indietro di cento anni. Questa è l'ora comoda degli impiegati. Quando cominciano ad arrivare ti rendi conto subito che hanno un'antropologia di gesti e di vestiario diversissima. Cappelli brizzolati ben pettinati, paltò scuri eleganti, borse in cuoio o zainetti griffati. Gli impiegati assomigliano molto ai padroni, come i cani ai padroni dei cani. Gli operai li bloccano. «Oggi non si entra». Alla fine dello stradone vedo un'auto della Polizia, ma nessuno degli agenti a bordo interviene. Allora gli zelanti impiegati fanno dietrofront, sembrano andarsene verso le auto. Invece costeggiano la cancellata e vanno a passi rapidi sul retro, dove c'è un altro ingresso. Li seguo. Quando arrivano a destinazione stessa scena, gli operai serrano le fila, li bloccano. Allora intervengono i carabinieri, poi anche i poliziotti, vola qualche urlo, due strattoni in tutto, e alla fine questi signori e signore cinquantenni entrano, anche se le loro orecchie debbono sentirne di tutte i colori: «Servi!!...bastardi!!... tanto la globalizzazione non risparmierà neanche voi!!». Un ragazzo piuttosto agitato dice: «Non bisogna berci neanche più il caffè alle macchinette con quegli schifosi». Sono piccole mosche anche loro, somigliano ai «manager industriali di successo (...) le sapienti colorate voraci mosche del capitale, sì le mosche ... per di più svolazzano e ronzano dappertutto, in bell'inglese, per andare a succhiare e a sporcare» come scriveva sempre Volponi.
Ora si va tutti al Porto di Ancona, dove c'è la manifestazione e il comizio, ma il racconto deve continuare. «Non lasciamoli soli» hanno scritto in questi giorni un gruppo di intellettuali torinesi in un appello, ma in realtà sono loro che non hanno lasciati soli noi.
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