WCM: Il modello Pomigliano è solo l'inizio
Sui siti della Fiat è indicato che per riorganizzare le sue fabbriche l'azienda fa ricorso al World Class Manufacturing (Wcm), nato - si dice con grande enfasi - dalla collaborazione con i migliori esperti europei e giapponesi. I principi organizzativi del Wcm ruotano intorno all'assunto che per raggiungere l'obiettivo del miglioramento continuo della qualità dei prodotti non sono decisive la tecnologia o le tecniche di produzione, bensì il talento dei lavoratori che devono essere in grado di gestire macchine e processi.
Ecco perché - ed è la vera e profonda innovazione rispetto alla catena di montaggio taylorista - gli operai addetti alle linee devono avere la possibilità di prendere decisioni a livello operativo sulla base dei dati riguardanti i processi di cui sono responsabili. In buona sostanza gli operai possono anche fermare la linea se rilevano un livello di qualità inaccettabile. Il gesto che nella fabbrica fordista era il segno di un punto alto di scontro tra lavoro e gerarchia di fabbrica ora diventa parte del processo di miglioramento continuo della competitività dell'impresa. Per dare avvio al Wcm serve una profonda formazione: gli operai devono essere preparati alle tecniche di gruppo ed alla soluzione dei problemi; i capi devono acquisire un ruolo di influenza/consulenza anziché di autorità e di controllo; gli ingegneri avranno bisogno di un aggiornamento continuo per fronteggiare la rapida evoluzione dei prodotti e dei processi produttivi. Sembra così descritta la prima fase del Marchionne «innovatore» che ferma Pomigliano ed avvia il processo di formazione, discutendo con il sindacato.
Il seguito del processo Wcm deve, però, risolvere il problema che la struttura organizzativa richiede partecipazione, ma anche identificazione totale dei lavoratori con l'azienda. Soprattutto si deve instaurare un rapporto di fiducia tra management ed operai: una volta che l'alta direzione ha definito gli obiettivi strategici deve comunicarli all'intera forza lavoro e coinvolgerla direttamente nel loro raggiungimento. Questa è la seconda fase di Pomigliano, del «prendere o lasciare» al posto della trattativa sindacale, perché nel sistema Wcm lo spazio del sindacato è solo quello di «preservare la competitività dell'impresa e quindi i posti di lavoro». Qui sta il punto: per avere operai «partecipativi» e «combattenti» (soldati di prima linea nella competizione globale) occorre che in fabbrica non ci sia più un sindacato autonomo e con una visione generale dei problemi del lavoro tramutata in diritti e garanzie nel contratto nazionale di categoria. Deve venir meno ogni capacità di controllo sull'organizzazione del lavoro, processo del resto già pericolosamente in atto nel nostro sistema produttivo. Una ricerca realizzata nel 2005 tra le Rappresentanze sindacali unitarie operanti in 130 imprese industriali lombarde, a fronte di cambiamenti nella produzione o nel lavoro, segnalava che le innovazioni erano state gestite nella maggior parte dei casi in modo unilaterale dal «management» collocando il sindacato in un ruolo puramente difensivo, di rincorsa al cambiamento della professionalità e delle competenze di lavoratori.
«Se una fabbrica non è governabile - come chiarisce Marchionne - non ha senso parlare di produzione». In buona sostanza la condizione dei cambiamenti nell'organizzazione del lavoro è la sconfitta del sindacato che permette all'impresa di gestire in modo unilaterale sia schemi partecipativi che intensificazione del lavoro. Pomigliano è solo l'inizio: è un messaggio chiaro, che la Fiom ha ben recepito. Dice a Cisl e Uil che non c'è spazio nemmeno per loro, perché la partecipazione è in «via gerarchia» e non deve interessare il sindacato, che deve solo garantire l'azienda nella realizzazione dei suoi obiettivi. Sfida però anche la Cgil sul terreno della sua autonoma capacità di iniziativa e proposta. Come nel 1983 la Fondazione Agnelli teorizzò che la competizione globale imponeva alle imprese un nuovo modo di lavorare e produrre e per questo occorreva imparare la lezione del '68 (dall'operaio polivalente al gruppo omogeneo), ora spetta alla Cgil (e alla sinistra politica, se vuole uscire dalla sua insignificanza) dimostrare che la centralità del lavoro nei processi produttivi e nella società non è possibile se non si parte da una riconquistata ed innovata capacità di contrattare e da un rafforzamento del ruolo dei delegati e della democrazia sindacale.
Ecco perché - ed è la vera e profonda innovazione rispetto alla catena di montaggio taylorista - gli operai addetti alle linee devono avere la possibilità di prendere decisioni a livello operativo sulla base dei dati riguardanti i processi di cui sono responsabili. In buona sostanza gli operai possono anche fermare la linea se rilevano un livello di qualità inaccettabile. Il gesto che nella fabbrica fordista era il segno di un punto alto di scontro tra lavoro e gerarchia di fabbrica ora diventa parte del processo di miglioramento continuo della competitività dell'impresa. Per dare avvio al Wcm serve una profonda formazione: gli operai devono essere preparati alle tecniche di gruppo ed alla soluzione dei problemi; i capi devono acquisire un ruolo di influenza/consulenza anziché di autorità e di controllo; gli ingegneri avranno bisogno di un aggiornamento continuo per fronteggiare la rapida evoluzione dei prodotti e dei processi produttivi. Sembra così descritta la prima fase del Marchionne «innovatore» che ferma Pomigliano ed avvia il processo di formazione, discutendo con il sindacato.
Il seguito del processo Wcm deve, però, risolvere il problema che la struttura organizzativa richiede partecipazione, ma anche identificazione totale dei lavoratori con l'azienda. Soprattutto si deve instaurare un rapporto di fiducia tra management ed operai: una volta che l'alta direzione ha definito gli obiettivi strategici deve comunicarli all'intera forza lavoro e coinvolgerla direttamente nel loro raggiungimento. Questa è la seconda fase di Pomigliano, del «prendere o lasciare» al posto della trattativa sindacale, perché nel sistema Wcm lo spazio del sindacato è solo quello di «preservare la competitività dell'impresa e quindi i posti di lavoro». Qui sta il punto: per avere operai «partecipativi» e «combattenti» (soldati di prima linea nella competizione globale) occorre che in fabbrica non ci sia più un sindacato autonomo e con una visione generale dei problemi del lavoro tramutata in diritti e garanzie nel contratto nazionale di categoria. Deve venir meno ogni capacità di controllo sull'organizzazione del lavoro, processo del resto già pericolosamente in atto nel nostro sistema produttivo. Una ricerca realizzata nel 2005 tra le Rappresentanze sindacali unitarie operanti in 130 imprese industriali lombarde, a fronte di cambiamenti nella produzione o nel lavoro, segnalava che le innovazioni erano state gestite nella maggior parte dei casi in modo unilaterale dal «management» collocando il sindacato in un ruolo puramente difensivo, di rincorsa al cambiamento della professionalità e delle competenze di lavoratori.
«Se una fabbrica non è governabile - come chiarisce Marchionne - non ha senso parlare di produzione». In buona sostanza la condizione dei cambiamenti nell'organizzazione del lavoro è la sconfitta del sindacato che permette all'impresa di gestire in modo unilaterale sia schemi partecipativi che intensificazione del lavoro. Pomigliano è solo l'inizio: è un messaggio chiaro, che la Fiom ha ben recepito. Dice a Cisl e Uil che non c'è spazio nemmeno per loro, perché la partecipazione è in «via gerarchia» e non deve interessare il sindacato, che deve solo garantire l'azienda nella realizzazione dei suoi obiettivi. Sfida però anche la Cgil sul terreno della sua autonoma capacità di iniziativa e proposta. Come nel 1983 la Fondazione Agnelli teorizzò che la competizione globale imponeva alle imprese un nuovo modo di lavorare e produrre e per questo occorreva imparare la lezione del '68 (dall'operaio polivalente al gruppo omogeneo), ora spetta alla Cgil (e alla sinistra politica, se vuole uscire dalla sua insignificanza) dimostrare che la centralità del lavoro nei processi produttivi e nella società non è possibile se non si parte da una riconquistata ed innovata capacità di contrattare e da un rafforzamento del ruolo dei delegati e della democrazia sindacale.
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