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sabato 25 settembre 2010

La madre di tutte le (contro) riforme di Antonio Lettieri



E’ quella che minaccia di cancellare la contrattazione nazionale, cosa che comporterebbe la rottura del patto sociale di base che riconosce il soggetto collettivo più debole del conflitto. Forse la legislatura è entrata nella sua fase finale, ma il rischio è che si lasci alle spalle un cumulo di rovine


Può essere che la legislatura sia ormai entrata nella sua fase finale. Sarà una fine ingloriosa quanto auspicata nella misura in cui libererà il paese da un governo che non ha confronti nel mondo occidentale. Insieme di destra, populista, illiberale e, soprattutto, un permanente attentato alla Costituzione democratica. Ma, attenzione. Il senso di liberazione rischia di rivelarsi tanto giustificato quanto ingannevole. E’ un  governo che minaccia di lasciarsi alle spalle un paese agonizzante, senza crescita e con una disoccupazione che può esplodere con l’esaurimento progressivo della Cassa integrazione, con la scuola in disarmo, col Mezzogiorno ricacciato nel Terzo mondo.Ma anche questa diagnosi, per quanto allarmante e impietosa, rischia di essere incompleta e perfino fuorviante. Ciò che sta accadendo in questi giorni è la  cosa più grave fra tutte. E’ l’apertura di un processo che minaccia una catena di conseguenze strutturali e di lungo termine che per molti versi potrebbe rivelarsi irrimediabile. E’ l’annuncio della disdetta del contratto nazionale dei metalmeccanici. Non una (contro)riforma fra le altre, un episodio contingente di scontro di classe e l'articolazione di un normale conflitto sociale, che la crisi tende a esasperare. La fine minacciata della contrattazione nazionale, anche se velata da artifici lessicali, è la madre di tutte le controriforme. E’ La rottura del patto sociale di base che riconosce il soggetto collettivo più debole del conflitto sociale. E’ lo svuotamento della solidarietà collettiva come base di auto-riconoscimento, di identità storica, di capacità negoziale nella difesa dei diritti, delle libertà e delle tutele, attraverso la “voce” collettiva di tutti.
Il collegamento di una parte del salario alla produttività o, in termini più generali, alle condizioni di lavoro che differenziano un’impresa dall’altra – la contrattazione articolata a livello di azienda – fa a pieno titolo parte del sistema duale della contrattazione italiana. Ed è, con variazioni secondarie, il modello contrattuale prevalente nelle relazioni industriali vigenti in Europa. Insieme con gli elementi essenziali del welfare, la solidarietà che si esprime nella contrattazione collettiva nazionale di categorie, è l’asse portante del modello sociale europeo. 
Dove, al contrario, come nel sistema americano, la contrattazione aziendale svolge un ruolo non integrativo ma sostitutivo del contratto nazionale, essa assume caratteristiche radicalmente diverse. La natura fondamentalmente unitaria della contrattazione si dissolve nella frantumazione dei diritti, delle tutele, degli elementi di base della condizione salariale in rapporto alla quantità e alla qualità della prestazione lavorativa.

Marchionne non inventa nulla. Vuole semplicemente importare, adottando una strategia ricattatoria, facilitata dal consenso del governo, il modello americano. Quello in base al quale il sindacalismo americano che rappresentava negli anni 70 un quarto della forza lavoro, si è ridotto a una rappresentanza del 12 per cento complessivo che, nel settore privato, scade all’otto per cento dei lavoratori. Come dire che oltre il novanta per cento dei lavoratori dei settori industriali e dei servizi è privo di rappresentanza e di potere negoziale. Un modello distruttivo degli equilibri sociali. Una delle componenti fondamentali dell’esplosione della diseguaglianza sociale che è all’origine della crisi corrente ben prima della crisi finanziaria.
Tra le giustificazioni di questa politica reazionaria, nel senso proprio di ritorno agli inizi del secolo XX, si porta il processo di globalizzazione. Ma la globalizzazione agisce in senso profondamente diverso secondo le politiche industriali e del lavoro che i diversi paesi adottano. Gli Stati Uniti ne sono l’emblema inconfutabile. Nel paese del neoliberismo rampante, l’industria manifatturiera è stata scompaginata e quella automobilistica, che ne era l’emblema, è stata portata al collasso. Come testimonianza rovesciata abbiamo l’industria tedesca, la più efficiente e competitiva del pianeta, con al centro l’industria metalmeccanica – e nel suo ambito l’auto – i cui lavoratori sono riuniti nella IG Metall, il più grande e il più potente sindacato di categoria dell’occidente. La globalizzazione è tanto una realtà quanto un alibi. Esige più regole, più politica, più riconoscimento dei soggetti collettivi, più partecipazione e non meno. Non annulla il conflitto sociale, ma impone di assumerne piena consapevolezza per stemperarlo in una strategia di avanzamento attraverso il riconoscimento dei diritti e dei bisogni fondamentali.

Tony Judt, uno dei più influenti storici e intellettuali contemporanei, nel suo ultimo libro (Ill Fares the Land) –  pubblicato pochi mesi prima della sua morte prematura, nello scorso agosto, scriveva: “Le società sono complesse e comprendono interessi in conflitto. Asserire il contrario – negare distinzioni di classe o di ricchezza o di influenza –è semplicemente un modo di promuovere un gruppo di interessi contro un altro. In passato si trattava di una proposizione auto-evidente; oggi siamo spinti a ripudiarla come un incoraggiamento all’odio di classe” (traduzione di chi scrive).Una lezione, questa, che dovrebbe essere meditata e tenuta presente da chiunque è schierato (o pensa di essere schierato) a sinistra nel campo della difesa del lavoro e del progresso sociale. A partire dal sindacato, la cui divisione non può trovare alcuna giustificazione, se non in una vocazione suicida. Come non trova nessuna giustificazione la sostanziale indifferenza di una grande parte della sinistra, quando non si tratti dell’aperta condivisione, di una parte dei suoi più vociferanti consiglieri.    

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