Fiat, Sergio Marchionne e il metodo della rappresaglia
Di Marco Revelli
Vergogna. È la prima parola che viene alle labbra alla notizia che arriva da Pomigliano. La risposta di Sergio Marchionne alla sentenza della Corte d’Appello di Roma, che lo condannava per attività antisindacale e gli imponeva l’assunzione dei primi 19 operai Fiom discriminati – l’avvio della procedura di mobilità di altri 19, già assunti tra gli operai “fedeli ” – è quanto di peggio si possa immaginare.
Sa di vendetta. Anzi, di rappresaglia. L’untuoso comunicato con cui Fip – Fabbrica Italia Pomigliano – annuncia che «non può esimersi dall’eseguire quanto disposto dall’ordinanza e, non essendoci spazi per l’inserimento di ulteriori lavoratori, è costretta a predisporre nel rispetto dei tempi tecnici gli strumenti necessari per provvedere alla riduzione di altrettanti lavoratori operanti in azienda», ricorda i manifesti affissi ai muri da un esercito invasore. Come quelli che nel 1943 tentavano di aizzare la popolazione civile contro i partigiani. O che nelle strade di Algeri minacciavano i parenti dei combattenti per piegarne la resistenza. Allo stesso modo la Fiat-Chrysler punta a strumentalizzare la paura di chi il lavoro l’ha conservato con un gesto umiliante di sottomissione contro chi ha tenuto alta la testa allora, e oggi ha ottenuto soddisfazione in sede di giustizia. Ci sono dei limiti, nella lotta sociale. Anche in condizioni difficili di mercato. Si pensava che Sergio Marchionne li avesse superati due anni or sono, quando aveva tentato di premere il piede sul collo dei 4000 di Pomigliano per costringerli ad accettare sotto ricatto l’inaccettabile, in una prova di forza basata sull’umiliazione dell ’avversario. Si era trovato di fronte, allora, un 40% di orgoglio e di dignità. Ora si spinge più in là. Apre, al di là della questione sociale – che pur è dolorosissima – una questione morale portando all ’estremo la sfida. Giocando con la pelle dei più deboli con una forma di sadismo sociale difficile da immaginare. Ostentando la propria forza, non solo contro i lavoratori della Fiom, ma contro la giustizia italiana.
Rivelando, nel cuore tecnologico del gigante automobilistico che si presenta come il fronte avanzato della modernità, un livello di meschinità umana degno di una micro-comunità rurale rancorosa. Fin dalla scorsa settimana aveva incominciato a circolare in fabbrica una lettera, in forma di petizione, in cui si esprimeva preoccupazione per gli effetti della sentenza, si alludeva al rischio che i lavoratori già assunti potessero essere messi in cassa integrazione per far posto ai vincitori in Tribunale, si mostrava solidarietà con l’impresa… Erano i capi a spingerne la sottoscrizione, dicendo che chi non firma è pronto per la cassa integrazione e magari per la lista di mobilità, con la gente che firmava piangendo.
Umiliata per la seconda volta, dopo essere stata ingannata. Pare che nonostante questo più di 700 si siano rifiutati. Ma era solo un anticipo. Ora il tiro è stato alzato. Dalla paura si è passati ai fatti: 19 famiglie sono state prese in ostaggio, per la battaglia privata del Capo che aveva promesso, due anni fa, 4383 assunzioni in cambio della resa, e che si è fermato a meno della metà. A 2000, per dire che anche così sono ancora troppi, che non se ne può tollerare in fabbrica neanche uno di più. E che per ogni assunzione forzata dai giudici si procederà all’esecuzione di altrettanti ostaggi. Ora la partita non è più solo tra Marchionne e i suoi operai. È tra Fabbrica Italia e l’Italia reale, con le sue istituzioni, le sue Leggi e i suoi giudici. Questa volta, se il gioco riuscirà – se passerà anche questa estrema forma di luddismo padronale che manda in pezzi l’intera costruzione giuslavoristica e tutti i fondamenti etici della vita associata, se taceranno anche ora le forze politiche, il governo, gli opinion leader che vanno per la maggiore – allora davvero si dovrà concludere che le fabbriche sono diventate terra di nessuno. Brandelli di extraterritorialità aperti alle incursioni del primo predatore da corsa di passaggio.
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