di Giorgio Cremaschi Alla vigilia dell'assemblea nazionale dell'area programmatica ritengo utile diffondere queste mie valutazioni, anche perchè ritengo che quell'appuntamento debba essere chiarificatore. “La Cgil che vogliamo” così come è oggi non ha un peso e una funzione corrispondente al senso e alle dimensioni della battaglia congressuale. La nostra è un'area in evidente crisi politica e organizzativa e prima di doverne constatare il precipitare definitivo è bene affrontare la situazione. Siamo in una fase politicamente e socialmente costituente, cioè tutto quello che abbiamo affrontato un anno fa al congresso è oggi radicalmente cambiato. Le vicende sindacali iniziate con Pomigliano e poi ora quelle politiche sociali e civili avviate dalla guerra in Libia hanno determinato assieme una nuova fase, sia a livello delle organizzazioni sindacali, sia a livello del quadro politico. (...) L'offensiva di Marchionne è dilagata in tutta la contrattazione e ha travolto il contratto nazionale. La nuova guerra umanitaria ha prepotentemente ricostruito legittimità all'utilizzo dell'intervento militare da parte del mondo occidentale. In entrambi questi due casi la stragrande maggioranza del Parlamento, l'unanimità sulla guerra, ha condiviso le scelte più brutali e radicali. Di fronte a tutto questo è evidente la crisi politica e identitaria della Cgil, che da un lato tende sempre più a schiacciarsi sull'opposizione politica, salvo poi essere costretta dalla situazione a scelte che la mettono ai margini anche di questa. La segreteria della Cgil ha più volte affernati che la linea di Marchionne era isolata. Ha più volte tentato il dialogo con la Confindustria e la composizione unitaria con Cisl e Uil. Ogni volta il risultato è stato quello di nuovi accordi separati, nel pubblico impiego, nella scuola, nel commercio. Questo non ha però portato a una revisione dei comportamenti e della linea politica. I due ultimi accordi sottoscritti sulla flessibilità, nel nome delle donne, e sulla detassazione dei premi aziendali sono una pura accettazione delle posizioni del governo e della Confindustria. In questo contesto anche lo sciopero generale è stato proclamato senza alcuna convinzione e, in ogni caso, in pura continuità con gli scioperi del passato contro il governo e non contro il sistema delle imprese. Infine con la guerra, ancora una volta, la Cgil ha assunto una posizione di sostanziale appoggio all’intervento militare. In questa situazione, con un accentuarsi anche della crisi operativa e burocratica della Cgil nelle categorie e nei territori, la nostra area programmatica non ha sinora dato il segno di essere una forza in grado di costruire una efficace battaglia politica per un’alternativa. Molti limiti vengono dalla stessa storia dell’area programmatica. E’ inutile però continuare a riproporli perché oramai è la nuova realtà che ci impone un cambiamento profondo. Sinora, la nostra area è stata in generale posta ai margini della vita della Cgil, in molti casi è stata messa all’opposizione, ma non è stata in grado di esercitare una vera opposizione. Così è toccato alla Fiom il compito di rappresentare un modello sindacale alternativo a quello della maggioranza della confederazione. La Fiom non è stata solo un riferimento interno al sindacato ma un vero e proprio riferimento per l’opposizione sociale. Se non vogliamo isolare i metalmeccanici in queste scelte tocca a tutta l’area programmatica farle proprie ed estenderle. Ora che si aprono nella maggioranza primi segnali di una nuova dialettica è ancor più necessario definire le caratteristiche e gli obiettivi dell’area, altrimenti c’è il rischio di essere assorbiti dentro la dialettica che si è aperto all’interno della maggioranza congressuale. Per queste ragioni fondamentali, a cui molte altre particolari potrebbero essere aggiunte, per l’area programmatica è necessario un nuovo inizio, sia sul piano dei contenuti, sia su quello delle scelte e dei comportamenti, sia su quello delle pratiche organizzative. I punti salienti sui quali caratterizzare le nostre scelte sono: 1. No alla guerra in Libia come a tutte le guerre “democratiche e umanitarie”, con la conseguente battaglia politica nella Cgil per affermare questa posizione o per esprimere il dissenso nel caso in cui la maggioranza non la faccia propria. 2. Radicalizzazione del conflitto sociale dopo la svolta autoritaria impressa da Marchionne a tutto il sistema delle relazioni sindacali. Questa scelta deve essere il punto centrale di una battaglia perché la Cgil nel suo insieme scelga una linea di conflitto con Confindustria, il sistema delle imprese, le controparti pubbliche. Conseguentemente occorre che l’area programmatica, in tutte le categorie e in tutti i territori, persegua questa linea. 3. Presa d’atto dell’impossibilità di ripristinare l’unità con Cisl e Uil e della necessità di una nuova pratica rivendicativa democratica della Cgil. Occorre costruire una nuova unità nei luoghi di lavoro che coinvolga tutte e tutti coloro che vogliono lottare contro il modello Marchionne. Occorrono pratiche di democrazia sindacale che saltino i veti di Cisl e Uil e giungano comunque al rapporto con i lavoratori. Occorre ricostruire una politica confederale comune di tutte le categorie alternativa al modello sindacale proposto da Cisl e Uil. In questo senso bisogna battersi affinché già il prossimo Primo maggio venga messa in discussione la sterile e controproducente pratica delle iniziative Cgil, Cisl e Uil. 4. Occorre elaborare una nuova piattaforma sindacale che affronti la crisi economica sociale e quella della democrazia con precise proposte e rivendicazioni per un altro modello di sviluppo. Intervento pubblico nell’economia, messa in discussione dei vincoli europei, cambiamento delle condizioni di lavoro e riduzione degli orari, autonomia e libertà contrattuale, redistribuzione della ricchezza devono essere i punti da cui partire per questa nuova piattaforma. 5. Occorre una rifondazione democratica dell’organizzazione sindacale che restituisca potere e partecipazione ai lavoratori, agli iscritti, ai rappresentanti aziendali. 6. L’area programmatica deve aprirsi a tutti i movimenti sociali e civili, deve partecipare alle nuove iniziative dell’opposizione sociale, contribuire ad estenderne la funzione e il peso. 7. Va aperta una battaglia a fondo sull’autonomia e sull’indipendenza della Cgil dall’opposizione politica e in particolare dal Partito Democratico. Ritengo che questi 7 punti siano costituenti del nuovo inizio dell’area. Un’area programmatica non è un’organizzazione. Vive di un sentire comune sulle questioni di fondo. Se questo viene meno, non ha senso proporre discipline che, tra l’altro, sono anche contrarie allo Statuto della Cgil. Per tutte queste ragioni ritengo che o troviamo assieme una reale condivisione sulle scelte di fondo, oppure, se verifichiamo che questo non è possibile, dobbiamo prendere atto che una fase si è conclusa. E’ inutile continuare a proclamare l’esistenza di un’area senza perimetro, quando rischiamo di avere un perimetro senza area. La mia proposta è che, nel caso in cui non si trovi una reale condivisione su queste scelte di fondo, sia necessario prendere atto delle diversità e definire una condizione di convivenza comune che non danneggi nessuno. Credo che si debba utilizzare la revisione statutaria che, se pur fatta con cattive intenzioni, nei fatti oggi definisce una diversità di pratiche che è nella realtà. C’è la minoranza congressuale, nella quale tutti ci identifichiamo e dobbiamo continuare a identificarci, anche per correttezza democratica tra un congresso e l’altro, e c’è l’area programmatica. Quest’ultima ha senso solo se definisce un’azione organizzata nei territori, nei luoghi di lavoro, tra i lavoratori e i cittadini. Senza una proiezione esterna, senza le assemblee, i volantini, le iniziative che esprimono il dissenso e la diversità di posizioni rispetto alla maggioranza della Cgil, l’area programmatica non ha alcun senso. Per queste ragioni ritengo che si debba trovare un equilibrio tra chi di noi preferisce muoversi secondo comportamenti da minoranza congressuale e chi vuole organizzare, come io penso sia necessario, un’area di opposizione che arrivi fino ai luoghi di lavoro. L’unico modo è quello di assumere una forma federativa nella quale dentro la minoranza congressuale, che manterrà una sua struttura comune nei confronti della maggioranza in particolare rispetto alle composizioni dei gruppi dirigenti, si possano liberamente sviluppare aree e gruppi organizzati con una propria pratica. Dopo molte volte nelle quali abbiamo tra di noi detto che bisognava rilanciare l’area organizzata e dopo altrettante volte nelle quali abbiamo verificato che questo non avveniva, credo che questa sia l’unica soluzione che impedisca la pura rottura tra di noi. Riconosciamo le diverse pratiche, manteniamo la nostra unità congressuale nei confronti della maggioranza sui gruppi dirigenti, e poi ognuno sia libero di fare le pratiche che ritiene più giuste. |
domenica 27 marzo 2011
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