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mercoledì 10 novembre 2010

La Fiat prigioniera della sua storia


di Alfredo Recanatesi

E’ diventata grande in un mercato protetto e di prima motorizzazione, specializzandosi nelle vetture da fascia bassa che non consentono grandi margini di profitto. Oggi continua ad avere successo nei paesi che ancora richiedono questo tipo di auto (Brasile, Polonia, Turchia), ma è assente nei segmenti adatti a paesi a più alto reddito. Che Marchionne pensa di coprire non con Fiat, ma con Chrysler
Come per gli uomini, così anche per le imprese il passato spiega il presente e condiziona il futuro. Per comprendere appieno il rapporto attuale tra la Fiat ed il paese, inasprito – non c’è che dire – dalla ben nota intervista di Sergio Marchionne nella trasmissione di Fabio Fazio, è opportuno quindi richiamare qualche dato di storia.

La Fiat è diventata rilevante sulla scena mondiale dell’auto motorizzando un paese emergente qual era l’Italia negli anni ’50 e ’60 del secolo passato. Allora i mercati erano ancora fortemente segmentati; l’importazione di auto da qualsivoglia altro paese era penalizzata da forti dazi; vigeva, in buona sostanza, un regime di monopolio anche se operavano con qualche successo due altre case con ben precise connotazioni: la Lancia, un brand forte per la raffinatezza e i contenuti innovativi della sua produzione, e l’Alfa Romeo, con una connotazione essenzialmente sportiva. Entrambi questi marchi, come si sa, furono assorbiti dalla Fiat non per una politica espansiva della casa torinese, ma perché entrambi in crisi ed entrambi potenziali chiavi di ingresso in Italia di case straniere.
La mentalità prevalente sia nell’industria che nella politica era ancora quella pauperista di un paese prevalentemente indigente, non scevro da qualche complesso di inferiorità, dunque timoroso del confronto internazionale, sempre angosciato dall’incubo della disoccupazione. Questa mentalità costituì l’ambiente nel quale fu forgiata la Fiat e la sua progressiva crescita. Le indubbie capacità dei suoi progettisti furono indirizzate verso la produzione di vetture eminentemente popolari e, conseguentemente, si formarono una esperienza ed una specializzazione nelle auto di quei segmenti che hanno costituito, ad un tempo, un punto di forza ed un limite. Con le auto di queste categorie, infatti, poté avviare la sua espansione all’estero; ma un estero fatto esclusivamente di paesi emergenti quali Brasile e Argentina, Russia, Turchia, Polonia e nel futuro prossimo Serbia per servire mercati di prima motorizzazione. Proiettata su questa chiave strategica, ha lasciato deperire Lancia ed Alfa Romeo le quali, diventando versioni appena riviste delle auto Fiat, hanno perso quasi del tutto le specifiche connotazioni che le avevano distinte e fatte apprezzare nel panorama automobilistico mondiale.
Anche i paesi prossimi al nostro, nel ventennio del secolo passato che abbiamo richiamato, erano simili a paesi emergenti (o riemergenti dopo le tragedie della guerra): in Francia la produzione della Renault era incentrata sulla Dauphine; in Germania la Volkswagen sfornava esclusivamente Maggiolini; e la Bmw, entrata in crisi dopo aver tentato di riprendere la produzione di auto di rispettabile cilindrata, si risollevò con l’Isetta, l’antesignana delle minicar prodotta su licenza italiana e, soprattutto, crescendo – si fa per dire – con vetturette di 700 di cilindrata.
Oggi il mondo – come si ama ripetere – è cambiato. È cambiato non solo a motivo della globalizzazione, che ha reso ecumenica la competizione, ma è cambiato perché i sistemi economici hanno fatto strada consentendo una moltiplicazione dei redditi ed una evoluzione degli stili di vita. Di strada ne è stata fatta parecchia, e ne hanno fatta anche le case automobilistiche francesi e tedesche che abbiamo assunto come paradigmi. Di fronte alla globalizzazione sono cresciute per linee “esterne” incorporando altre case: Renault ha assorbito la giapponese Nissan; la Bmw, chiudendo la brutta esperienza con l’inglese Rover, ha tenuto per sé e rilanciato la Mini rilevando, nello stesso tempo, la prestigiosa Roll Royce; la Volkswagen, oltre ai marchi tedeschi Audi e Porsche, ha fatto man bassa in Europa assorbendo dalla spagnola Seat (che era della Fiat), alla ceca Skoda, fino alle esclusive Bentley, inglese, Bugatti, francese, Lamborghini, italiana. Di fronte allo sviluppo dei sistemi economici, dei redditi distribuiti e degli stili di vita, queste case hanno quasi del tutto abbandonato le utilitarie (qualcosa sopravvive, ma prodotta in paesi emergenti) per incentrare la produzione su vetture di fascia più elevata e soprattutto su nuove tipologie – monovolume, suv e crossover, coupè-spider, ecc. – in grado non solo di coltivare segmenti di mercato sempre più definiti, ma anche di puntare sul fattore emozionale che su mercati esclusivamente di sostituzione, come ormai sono quelli europei, costituisce un fattore di successo quasi sempre rilevante e talvolta determinante.
E la Fiat? Fino alla integrazione con la Chrysler la Fiat si è limitata ad evolvere la sua specializzazione nelle vetture di fascia bassa e medio-bassa con qualche tentativo nel segmento delle medie che non ne ha modificato l’immagine e la presenza sul mercato in quanto condotto lesinando gli investimenti. I marchi Lancia e Alfa Romeo, quelli con i quali avrebbe potuto potenzialmente seguire l’evoluzione dei più ricchi mercati italiano ed europeo, sono stati lasciati – come abbiamo detto – deperire; entrò tardi nel settore delle monovolume, e solo apponendo i suoi marchi su prodotti francesi; di suv, l’unico segmento che ha resistito alla crisi degli ultimi due anni, neanche l’ombra, come neanche l’ombra c’è di motori con più di quattro cilindri, di trazioni posteriori o integrali, tutti must necessari per imporsi sui mercati più maturi e redditizi. Per dirla in sintesi, la Fiat è rimasta una casa da paesi emergenti, e non è dunque un caso che Fiat Auto, come ha detto Marchionne ferendo l’italico orgoglio, guadagni dappertutto tranne che in Italia, quel dappertutto essendo fatto da Brasile, Polonia, Turchia.
Con questa strategia, Fiat si ritrova, infatti, a competere con i paesi a basso costo in segmenti di mercato nei quali i margini, se e quando ci sono, sono necessariamente bassi, rimanendo tuttora assente su quei segmenti nei quali i margini possono essere elevati.
Ora è in corso l’integrazione con Chrysler. Sul piano globale la sinergia consentirà di colmare alcune lacune dell’offerta – suv, monovolume, una berlinona americana grande, ma già ora concettualmente un po’ vecchiotta –, ma sul piano produttivo per gli stabilimenti italiani cambierà poco o nulla. Anzi, se troverà conferma quanto fin d’ora si delinea, i prodotti di fascia più alta del gruppo integrato verranno prodotti oltre Atlantico per essere importati o, bene che va, assemblati in Italia, residuando per gli impianti nazionali proprio la produzione delle auto di fascia più bassa. In una ottica esclusivamente domestica, dunque, si può concludere che l’integrazione con Chrysler preclude la prospettiva, ipotetica ma possibile, che la Fiat potesse evolvere impiegando i suoi insediamenti italiani in produzioni di più alta gamma e potenzialmente più redditizie.
Se la realtà è questa – e questa è – dovrebbe imporsi la massima cautela nell’accordare credito alla carota agitata da Marchionne quando ha prospettato retribuzioni più elevate in cambio di una maggiore efficienza. Il punto, infatti, è sempre quello che definimmo in una precedente nota del giugno scorso: la competizione nelle fasce più popolari del mercato dell’auto, nelle quali ci si confronta con le produzioni dei paesi a basso costo, può essere sostenuta solo alla condizione che il quadro operativo – salari, norme, organizzazione del lavoro, incentivi pubblici – sia complessivamente simile. Semmai si arriverà a rendere simili anche le condizioni operative nel nostro paese, forse – e va ripetuto forse – potrà anche essere conseguito un rendimento economico degli stabilimenti italiani che non costituisca più un peso per i conti di Fiat Auto, ma di qui a generare margini che consentano anche di innalzare le retribuzioni ce ne corre, e parecchio.
Marchionne ha recuperato una Fiat sull’orlo del precipizio: è stato bravo, certo, ma occorre anche dire che, avendola presa in mano quando era totalmente allo sbando, ha avuto anche un gioco relativamente facile. Per collimare con gli interessi e con le ambizioni dell’Italia ora dovrebbe misurarsi nella ardita operazione di portare la Fiat Auto da casa automobilistica da paese emergente a casa automobilistica da paese affluente, conquistando una quota nei segmenti di fascia alta con prodotti ad elevato valore aggiunto, appaganti, innovativi, oltre che tecnologicamente evoluti come le capacità e l’esperienza di tecnici e maestranze sarebbero in grado di realizzare senza temere la concorrenza di chicchessia. Nulla dalle parole di Marchionne sembra però avvalorare una simile ipotetica strategia, forse perché ormai questo ruolo è affidato alla Chrysler, e forse perché alle spalle non ha un azionariato disposto a sostenere una scommessa tanto ambiziosa. Probabilmente non è un caso che del suo piano industriale per l’Italia altro ancora non si sappia oltre alla chiusura di Termini Imerese e alla nuova Panda a Pomigliano, questa per altro tutt’altro che certa.
Il modello “dei paesi a noi vicini”, come ha definito quello tedesco e quello francese, rimangono quindi lontani; tanto lontani; con i dati ad oggi a disposizione addirittura chimerici. Ne consegue che il rapporto tra la Fiat e l’Italia non può prospettarsi né facile, né soprattutto sereno.

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