L’ingiustizia plateale di cui è vittima il lavoro dipendente nel nostro paese–rimossa dal governo, trascurata dalla sinistra- si sta riprendendo da sola l’attenzione che le spetta. Solo un establishment miope, che ha lucrato per decenni sulla crescita delle disuguaglianze sociali senza peraltro compensarla con alcun vantaggio per l’economia, può liquidare la piazza romana gremita di lavoratori metalmeccanici come una manifestazione di estremismo politico. Da trent’anni una distribuzione squilibrata del reddito –che a differenza da altri paesi neppure la fiscalità e il welfare riescono a correggere- provoca un’imponente decurtazione della quota di ricchezza nazionale destinata alle buste paga. E come se questo non fosse un problema, ogni rara volta che viene ipotizzato un nuovo investimento nell’apparato industriale, esso viene preceduto dalla richiesta di concessioni normative a vantaggio dell’impresa. Quasi non provenissimo da decenni di moderazione sindacale e di concessioni rimaste senza contropartita alcuna per i lavoratori.
Può sembrare antico il simbolo della Federazione Impiegati Operai Metallurgici della Cgil fondata nel 1901, con la ruota dentata e il martello affiancati alla penna e al compasso- ma chi lo irrideva alla stregua di un anacronismo ormai disgiunto dal malcontento operaio, ha perso la sua scommessa.
Ancora una volta si è confermato poco saggio confidare sulla divisione sindacale per edificare nuove relazioni industriali. Sono caduti nel vuoto perfino gli avvertimenti del vecchio “duro” Cesare Romiti. Peggio ancora, il ministro Maroni ha additato irresponsabilmente come pericolo pubblico la manifestazione promossa da una grande organizzazione democratica che merita il rispetto di tutti, compreso chi non ne condivide la linea sindacale. Mentre il suo collega Sacconi, novello apprendista stregone, ha sproloquiato vaneggiando di un inesistente “clima da anni Settanta”.
La compostezza della protesta operaia ha fatto giustizia della linea di un governo che punta a stringere accordi con la Cisl e la Uil negando il ruolo decisivo della Cgil. Speriamo che l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, dopo aver dato in questa circostanza il cattivo esempio, riveda il proprio errore.
Toccherà ora ai sindacati di Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti ritessere un rapporto unitario con la nuova leader della Cgil, Susanna Camusso, contribuendo a sopire le tensioni che hanno dato luogo purtroppo a intimidazioni gravi nei loro confronti. Nessuno tra coloro che rifiutano calcoli politici di breve periodo, neanche la Confindustria, ha convenienza a fronteggiare la gestione della crisi economica con due piazze sindacali contrapposte. Tanto più dopo la giornata di ieri che ha evidenziato rapporti di forza diversi da quelli su cui forse anche Cisl e Uil facevano affidamento.
L’argomento secondo cui la Fiom Cgil mobilita grandi numeri solo perché intorno a lei si radunano forze radicali, precari della scuola e studenti estranei al mondo della fabbrica –il “nuovo antiberlusconismo” di cui parla Nichi Vendola- denota una visione politicista che elude la sostanza del problema: chiedere deroghe ai dipendenti in materia di malattia e diritto di sciopero, addirittura disdettare un contratto nazionale prefigurando ovunque normative svantaggiose, viene percepito come un’ingiustizia da chi molto ha già dato senza ricevere nulla in cambio.
Certo, dalla nuova posizione di forza acquisita, anche la Fiom Cgil dovrà avvertire la responsabilità di operare per una nuova unità sindacale, sedersi di nuovo ai tavoli delle trattative, vincendo la tentazione di un isolamento dorato.
Il Partito Democratico soffre più di chiunque altro questa divisione sindacale e paga il prezzo di non aver saputo delineare un suo impegno politico diretto nel mondo del lavoro, influenzando anche le dinamiche interne alle tre confederazioni. L’assenza di Bersani in piazza San Giovanni è dovuta al fatto che il segretario del Pd non può oggi permettersi di scegliere: difatti non aveva partecipato neppure alla manifestazione di Cisl e Uil, la settimana prima, a piazza del Popolo.
Magari fosse solo una questione diplomatica. La verità è che l’intera classe politica del centrosinistra, qualunque sia la sua matrice culturale, si è macchiata di un’inadempienza storica. Rescisso il legame esistenziale con gli operai, interrotto il circuito virtuoso per cui la rappresentanza delle classi subalterne si tramutava anche in leadership espresse direttamente dal mondo del lavoro, non ha allontanato solo il suo tenore di vita e la sua sensibilità dal popolo delle formiche. La classe dirigente del centrosinistra si è autoconvinta che un’adesione acritica alla cultura neo-liberale fosse il requisito indispensabile per candidarsi al governo del paese, supportata dal consenso di un establishment che nel frattempo si arricchiva spogliando risorse, anziché promuovere lo sviluppo.
Saranno necessari un cambio di mentalità, drastiche correzioni organizzative e di comportamenti, affinché l’attenzione al reddito e alla condizione operaia riacquisti il giusto peso nella politica del centrosinistra.
Non è un ritorno all’antico, ma un’adesione moderna alla vita quotidiana di chi fa fatica, il messaggio urgente che piazza San Giovanni rivolge a una politica distante.
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