FALCE E MARCHIONNE
«Un nuovo patto sociale»
«Basta con il conflitto tra padroni e operai». Invitato di punta del meeting di Cl, Sergio Marchionne chiede un cambio a tutto tondo delle relazioni industriali, «perchè l'Italia è l'unico paese dove la Fiat è in perdita». E su Melfi parla di «boicottaggio» e di giudici «condizionati dalla campagna mediatica»
Arriva al Meeting di Rimini con mezz'ora in ritardo, accigliato, sudato nella sua polo nera marchiata Marchionne. Si scusa, aveva preparato un discorso che sarebbe volato alto sui cuori dei cinquemila di Comunione e liberazione, per lo più ragazzini affettuosi ed entusiasti un po' con tutti. Lui non ha paura di volare, giura l'amministratore delegato Fiat; e pure alto, come il jet che lo ha riportato da da Detroit, dove ha festeggiato con gli operai Chrysler e con Joe Biden, il vice di Obama, il primo anno di «rifondazione dell'auto americana»: pic nic a birra e salsicce, e lui a fare il cameriere, ma che simpatico questo Sergio, e quanto lo amano questi operai americani a cui ha tagliato a metà il salario e cancellato il diritto di sciopero fino al 2014. Però Sergio fa l'americano anche a Pomigliano, o meglio fa il serbo e un po' il polacco a Melfi e a Termini Imerese. E non si capacita che qui niente birra e salsicce, qui l'accoglienza è tutta un'altra: il presidente della Repubblica esprime «profonda comprensione» per gli operai accusati di sabotaggio (a Melfi), licenziati, reintegrati dal giudice e subito mobbizzati; i vescovi e mezzo Vaticano lo ammoniscono di rispettare la «dignità della persona e del lavoro». Sergio non ci sta, stiracchia Pavese, Hegel e Machiavelli per dire che non torna indietro di un millimetro: «La Fiat è sempre la stessa che la si guardi in Europa, Stati uniti o in Sudamerica. I nostri principi sono uguali dovunque nel mondo». Appunto, la Fiat vorrebbe essere la stessa, potesse, in Italia come in Cina. Poi, all'uscita, aggiusta: chiede di lasciare Napolitano fuori dalla mischia politica (il Colle apprezza), annuncia che è disponibile a incontrare Guglielmo Epifani, il segretario Cgil, il maggiore sindacato italiano: e mancherebbe dicesse il contrario. Insorgerebbero, ancor prima che gli operai, i suoi colleghi di Confindustria.
Davanti alla platea di Rimini - che gli tributa venti dicasi venti applausi - il manager italo-canadese dall'approccio globale, che è di Chieti ma parla inglese anche quando parla italiano, è costretto «a dirottare il discorso a livello locale»: chiude le ali e sale sul caterpillar. Intanto, come aveva fatto Emma Marcegaglia il giorno prima, dichiara che la lotta di classe è finita, basta con il vecchio conflitto «fra capitale e lavoro e fra padroni e operai». E snocciola la sua idea «nuovo patto sociale». Idea modernissima, assicura. Frutto di anni e anni di top management trascorsi fra l'America, la Francia, la Svizzera, mica in Italia, il paese della «conservazione, della paura di cambiare», insomma questo posto di trogloditi indietristi. Ma devono esser stati anni di insonnia e mostri, se questo suo nuovo patto sociale è una roba ottocentesca, cupa, popolata di spettri, ombre, incubi oscuri: fancazzisti, operai pronti a sabotare il padrone, a scioperare, a rubacchiare. Piombo nelle ali per l'ad che vuole volare, anche se non ce la fa. «L'Italia - avverte - è l'unico paese dove la Fiat è in perdita». Lui ringrazia pubblicamente la Cisl e la Uil per aver «accompagnato questo percorso di rifondazione dell'auto italiana», quello verso il nuovo sistema di relazioni industriali prefigurato il giorno dell'accordo separato di Pomigliano. Un sistema come lui lo vuole, dove è «indispensabile colmare il divario competitivo» con i paesi in cui il costo del lavoro è più basso (quindi in Italia va tagliato), dove «l'unica cosa che chiediamo è che gli accordi firmati vengano rispettati» (quindi va abolito il diritto di sciopero), dove anche il contratto nazionale avrebbe vita breve. Dove non è giusto usare «il diritto di tre contro il diritto di molti», come se i diritti di tutti non corrispondessero a quelli di ciascuno.
Quando il discorso arriva sui tre operai di Melfi, Marchionne perde il navigatore, rivendica la dignità dell'impresa contro la dignità dei suoi lavoratori, dice che la Fiat rispetta la legge, che i giudici che fin qui le hanno dato torto sono stati «condizionati dalla campagna mediatica», ripete quella parola «boicottaggio», che è un marchio d'infamia e ignora ben due sentenze. E qui l'ex «borghese buono», l'ex «manager socialdemocratico» (le definizioni, datate 2006, sono di leader della sinistra radicale e moderata) compie la trasformazione in falco e avverte: «Nel limite del possibile riteniamo sia nostro dovere privilegiare il Paese in cui la Fiat ha le proprie radici». Sorvolando sul fatto che l'Italia è anche il paese in cui la Fiat vende il 70 per cento delle sue auto in Europa; sorvolando che a Termini Imerese sono in ballo 3 mila persone; e che a Pomigliano la futura Newco è in contrasto con il diritto del lavoro e rischia di scatenare una valanga di ricorsi. Ma il messaggio è: o così o niente, o così o la Fiat molla. E non c'è politica («non ci faremo trascinare in teatrini»), non c'è democrazia, contratto o costituzione che tenga. Perché è in atto «la contrapposizione fra due modelli: uno che difende il passato e uno che guarda il futuro». Lui guarda il futuro: anche se a guardarlo bene, questo futuro è vecchio di almeno un secolo.
Arriva al Meeting di Rimini con mezz'ora in ritardo, accigliato, sudato nella sua polo nera marchiata Marchionne. Si scusa, aveva preparato un discorso che sarebbe volato alto sui cuori dei cinquemila di Comunione e liberazione, per lo più ragazzini affettuosi ed entusiasti un po' con tutti. Lui non ha paura di volare, giura l'amministratore delegato Fiat; e pure alto, come il jet che lo ha riportato da da Detroit, dove ha festeggiato con gli operai Chrysler e con Joe Biden, il vice di Obama, il primo anno di «rifondazione dell'auto americana»: pic nic a birra e salsicce, e lui a fare il cameriere, ma che simpatico questo Sergio, e quanto lo amano questi operai americani a cui ha tagliato a metà il salario e cancellato il diritto di sciopero fino al 2014. Però Sergio fa l'americano anche a Pomigliano, o meglio fa il serbo e un po' il polacco a Melfi e a Termini Imerese. E non si capacita che qui niente birra e salsicce, qui l'accoglienza è tutta un'altra: il presidente della Repubblica esprime «profonda comprensione» per gli operai accusati di sabotaggio (a Melfi), licenziati, reintegrati dal giudice e subito mobbizzati; i vescovi e mezzo Vaticano lo ammoniscono di rispettare la «dignità della persona e del lavoro». Sergio non ci sta, stiracchia Pavese, Hegel e Machiavelli per dire che non torna indietro di un millimetro: «La Fiat è sempre la stessa che la si guardi in Europa, Stati uniti o in Sudamerica. I nostri principi sono uguali dovunque nel mondo». Appunto, la Fiat vorrebbe essere la stessa, potesse, in Italia come in Cina. Poi, all'uscita, aggiusta: chiede di lasciare Napolitano fuori dalla mischia politica (il Colle apprezza), annuncia che è disponibile a incontrare Guglielmo Epifani, il segretario Cgil, il maggiore sindacato italiano: e mancherebbe dicesse il contrario. Insorgerebbero, ancor prima che gli operai, i suoi colleghi di Confindustria.
Davanti alla platea di Rimini - che gli tributa venti dicasi venti applausi - il manager italo-canadese dall'approccio globale, che è di Chieti ma parla inglese anche quando parla italiano, è costretto «a dirottare il discorso a livello locale»: chiude le ali e sale sul caterpillar. Intanto, come aveva fatto Emma Marcegaglia il giorno prima, dichiara che la lotta di classe è finita, basta con il vecchio conflitto «fra capitale e lavoro e fra padroni e operai». E snocciola la sua idea «nuovo patto sociale». Idea modernissima, assicura. Frutto di anni e anni di top management trascorsi fra l'America, la Francia, la Svizzera, mica in Italia, il paese della «conservazione, della paura di cambiare», insomma questo posto di trogloditi indietristi. Ma devono esser stati anni di insonnia e mostri, se questo suo nuovo patto sociale è una roba ottocentesca, cupa, popolata di spettri, ombre, incubi oscuri: fancazzisti, operai pronti a sabotare il padrone, a scioperare, a rubacchiare. Piombo nelle ali per l'ad che vuole volare, anche se non ce la fa. «L'Italia - avverte - è l'unico paese dove la Fiat è in perdita». Lui ringrazia pubblicamente la Cisl e la Uil per aver «accompagnato questo percorso di rifondazione dell'auto italiana», quello verso il nuovo sistema di relazioni industriali prefigurato il giorno dell'accordo separato di Pomigliano. Un sistema come lui lo vuole, dove è «indispensabile colmare il divario competitivo» con i paesi in cui il costo del lavoro è più basso (quindi in Italia va tagliato), dove «l'unica cosa che chiediamo è che gli accordi firmati vengano rispettati» (quindi va abolito il diritto di sciopero), dove anche il contratto nazionale avrebbe vita breve. Dove non è giusto usare «il diritto di tre contro il diritto di molti», come se i diritti di tutti non corrispondessero a quelli di ciascuno.
Quando il discorso arriva sui tre operai di Melfi, Marchionne perde il navigatore, rivendica la dignità dell'impresa contro la dignità dei suoi lavoratori, dice che la Fiat rispetta la legge, che i giudici che fin qui le hanno dato torto sono stati «condizionati dalla campagna mediatica», ripete quella parola «boicottaggio», che è un marchio d'infamia e ignora ben due sentenze. E qui l'ex «borghese buono», l'ex «manager socialdemocratico» (le definizioni, datate 2006, sono di leader della sinistra radicale e moderata) compie la trasformazione in falco e avverte: «Nel limite del possibile riteniamo sia nostro dovere privilegiare il Paese in cui la Fiat ha le proprie radici». Sorvolando sul fatto che l'Italia è anche il paese in cui la Fiat vende il 70 per cento delle sue auto in Europa; sorvolando che a Termini Imerese sono in ballo 3 mila persone; e che a Pomigliano la futura Newco è in contrasto con il diritto del lavoro e rischia di scatenare una valanga di ricorsi. Ma il messaggio è: o così o niente, o così o la Fiat molla. E non c'è politica («non ci faremo trascinare in teatrini»), non c'è democrazia, contratto o costituzione che tenga. Perché è in atto «la contrapposizione fra due modelli: uno che difende il passato e uno che guarda il futuro». Lui guarda il futuro: anche se a guardarlo bene, questo futuro è vecchio di almeno un secolo.
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